sabato 21 luglio 2007

MEMORIE




Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa


9 ottobre 1963, ore 22,39

Il rumore della morte a cosa rassomigliava? Al rombo di tuono udito fino a poche ore prima? Oppure il suono appariva già nuovo, già diverso anche se ancora inconfondibile? E mentre, la televisione – una delle poche, forse l’unica – raccontava di una partita di calcio, cosa gridavano, cosa bestemmiavano? E cosa bevevano tra una cicca e l’altra? Forse un bianco frizzante, uno di quei prosecco che vengono dalla Valdobbiadene? O forse un vino rosso, forte, sanguigno come quei volti segnati di fatica? E i cappelli – sì i cappelli – dov’erano? Appesi ai muri oppure tenuti, saldi, sulle ginocchia? E avranno intuito che quel suono sordo non era tuono ma già avvisaglia di violenza che lassù, lungo il pendio dei monti, aveva già fatto opera compiuta di distruzione? Forse, chissà, avranno compreso all’ultimo che quel suono sordo non era rumore di tuono: no, perché quello si interrompe, si spezza, non è continuo. Questo invece era infinito, senza sosta, instancabile ed inesauribile. Forse allora avranno capito. Ma era già troppo tardi.


22 luglio 2007, ore 9

Insieme ad un gruppo di fidati amici arriviamo sul Vajont. Pur essendo un appassionato di montagna (così come di immersioni subacquee ma questo è un altro discorso) non vi ero mai stato: per me quel nome era soltanto una indicazione che trovi poco dopo Longarone, sulla destra, lungo la via che ti porta verso le Dolomiti ampezzane e le loro vette che talvolta, con l’amico Silvano, scaliamo in solitudine. Per arrivare alla diga percorri una strada recente che conserva molto poco dei ricordi di infanzia di Mauro Corona che ancora vive ad Erto, poco sopra la diga. Quel che accadde quella notte lo comprendi quando consideri la differente altezza prima e dopo la diga. Nomen omen: il prima è quasi colmo da ciò che precipitò dal monte TOC quando, fradicio di pioggia e senza salde radici a contenerne l'azione di scivolamento, cedette di colpo. Il dopo è un baratro scosceso. Tra il prima e il dopo solo la diga. Appena arrivi ti assale immediatamente un senso di pesantezza, di dolore anche se tanti anni sono passati da quel maledetto giorno che molti – ne sono certo – avranno vissuto attraverso la straordinaria ricostruzione che ne ha fatto Marco Paolini. Tra me e quella tragedia c'è un legame. In un’altra stagione della mia vita, infatti, ho fatto per 10 anni il giornalista in un quotidiano locale. Il mio caporedattore, Toni Sirena, altri non era che il figlio di Clementina (ma per tutti era semplicemente Tina) Merlin, la giornalista de L’Unità (nel film - diretto da Renzo Martinelli - che ne è stato tratto era interpretata da Laura Morante) che, prima e unica, aveva avuto il coraggio di denunciare, inascoltata, il rischio rappresentato da quella diga. E, soprattutto, che per quelle denuncia era stata addirittura arrestata e processata per direttissima (consiglio il sito dell’associazione www.tinamerlin.it). Ma c’è un’altra persona (a volte sono strane le connessioni che legano un ricordo all’altro) cui ho pensato in quei minuti di veglia silenziosa, vicino alla chiesetta che ricorda i morti di quella strage. Ed è l’onorevole Tina Anselmi, che conosceva benissimo il lavoro della sua omonima. Una sera la Anselmi era ospite di alcuni suoi amici a Mira. Ci andai per intervistarla. Una intervista è sempre difficile: se cominci male, non riesci a raddrizzarla più. Ed io non sapevo da dove partire. Toni mi aveva dato una lettera affinché gliela consegnassi. “Ad intervista conclusa” si raccomandò: era l’invito a partecipare alla nascita della fondazione Tina Merlin. Decisi di contravvenire all’ordine del mio capo. Quando gliela consegnai, spiegandole chi fosse il destinatario, credo di aver visto negli occhi dell’allora presidentessa della commissione parlamentare sulla P2 un velo di commozione. Due persone diversissime (la Anselmi democratica-cristiana, la Merlin giornalista de L’Unità) ma unite dalla esperienza della Resistenza, dal loro essere state entrambe partigiane, dal loro essere donne di montagna (di sguincio la Anselmi essendo nata a Castelfranco Veneto; di nascita la Merlin, nata a Trichiana, nel bellunese), rispettose l’una del lavoro dell’altra. Sono passati quasi 15 anni da quei giorni e oggi li ho rivissuti tutti accorgendomi che nulla avevo dimenticato.

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1 Commenti:

Anonymous Anonimo ha detto...

Dovresti consigliare ai tuoi lettori di leggere "Sulla pelle viva"... non si resta indifferenti, così come di fronte a Paolini o al film o, semplicemente, ai riflessi del sole che al tramonto lancia una luce tenue sulla diga, oggi come allora...

8 agosto 2007 alle ore 20:31  

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