martedì 7 giugno 2011

SULLA MEMORIA

Una coincidenza incredibile, densa di una drammaticità che spesso la storia ci regala...Il 10 giugno del 1981 Alfredo Rampi, un ragazzino romano, non torna a casa...inutilmente lo cercano fino a scoprire ch'era scivolato in un pozzo artesiano. Quello stesso giorno Roberto Peci, fratello del brigatista pentito Patrizio, viene sequestrato dalle Brigate Rosse per ritorsione contro il pentimento del fratello. In entrambi i casi queste dolorosissime vicende si conclusero con la morte dei due protagonisti. Su questa singolare coincidenza Walkter Veltroni costruisce il suo ultimo libro, L'inizio del buio (ed. Rizzoli).
Quando Roberto viene vigliaccamente trucidato dai terroristi, sua moglie attendeva una bimba. Quella bimba. che sarà chiamata Roberta, è cresciuta senza aver conosciuto suo padre. Un destino del tutto simile a quello di altri figli di vittime del terrorismo: Benedetta (Tobagi), Mario (Calabresi) su tutti. Giovanni Bianconi, de Il Corriere della Sera, ha intervistato Roberta....questo è quanto lei ha detto:
Quando suo padre è morto lei non era ancora nata. Accadeva trent' anni fa, 1981, anno di piombo, di omicidi efferati e di grandi cambiamenti: dalla scoperta della Loggia P2 all' attentato a Giovanni Paolo II, al primo governo dell' Italia repubblicana guidato da un non democristiano. Il 10 giugno, in una strada laterale di San Benedetto del Tronto che allora si chiamava via Arrigo Boito, un commando delle Brigate rosse-Partito guerriglia rapì Roberto Peci, fratello di Patrizio, il primo pentito del terrorismo di sinistra. Lo tennero sequestrato per cinquantaquattro giorni, filmando i suoi interrogatori e le false confessioni sul «doppio arresto» di Patrizio, rese nella speranza di tornare libero; il 3 agosto lo uccisero, con un cappuccio in testa e un cartello al collo: «Morte ai traditori». Fotografarono l' esecuzione e abbandonarono il cadavere in una sorta di discarica alla periferia di Roma. Roberto aveva 25 anni, una moglie e una bambina in arrivo che venne alla luce il 16 dicembre 1981. Doveva chiamarsi Rachele o Carlotta, invece sua madre le diede il nome del padre assassinato quattro mesi prima: Roberta. Oggi via Arrigo Boito si chiama via Roberto Peci, il cambio di targa è avvenuto il 9 maggio scorso; poche ore prima Roberta e sua madre erano a Roma, al Quirinale, invitate alla cerimonia ufficiale della Giornata per le vittime del terrorismo. «Sono stati due fatti molto importanti, perché finalmente ci siamo sentiti quello che siamo, familiari di vittime come tutti gli altri, non più di serie B», dice Roberta. Il suo obiettivo è salvaguardare la memoria del padre: «È un mio dovere, l' unica cosa che posso fare per lui. In molti l' hanno definito un brigatista, come fosse la vittima di una faida interna, mentre lui con le Br non aveva niente a che fare, era solo il fratello di un brigatista che ha scelto di fare il pentito. L' hanno ammazzato per ritorsione, ma non era un terrorista. Vedere finalmente riconosciuta questa verità in forma ufficiale, attraverso l' invito al Quirinale e l' intitolazione della strada in cui fu rapito, per me è stato un grande sollievo, come una forma di riparazione». Ma la ricerca di un po' di serenità per la figlia di Roberto Peci non è finita: «Vorrei incontrare i suoi assassini, a cominciare da Giovanni Senzani, il capo del gruppo che organizzò e decise il sequestro e l' esecuzione». Arrestato nel 1982, condannato all' ergastolo per il delitto Peci e altri omicidi, da qualche tempo Senzani è tornato ad essere un uomo libero. «Ho cercato il suo avvocato e ho lasciato il mio numero chiedendo di essere richiamata, ma non è successo», racconta Roberta che nel trentesimo anniversario del rapimento spiega perché vorrebbe guardare negli occhi il carnefice di suo padre: «Lui per me è sempre stato una specie di mostro, mentre io vorrei riuscire a esorcizzare quest' immagine e riuscire a vederlo come persona, ascoltarne le ragioni, fare domande e sentire risposte. Vorrei perdonarlo, per coltivare sentimenti che non siano di rabbia né di vendetta. Ma prima ho bisogno di vederlo in faccia. Io non sono cattolica, ma mi servirebbe per andare avanti, per chiudere un cerchio della mia vita. Lui ha pagato il suo debito con la giustizia secondo le leggi, e va bene, ma credo che abbia un debito morale con me e la mia famiglia che sarebbe giusto assolvere. Vorrei che mi spiegasse le vere ragioni di un omicidio tanto assurdo quando crudele, di un martirio che alla fine è stato controproducente per le stesse Br; volevano fermare il fenomeno del pentitismo, mentre è accaduto il contrario». Al regista del sequestro Peci e agli altri carcerieri, Roberta vorrebbe anche chiedere lumi sul padre che non ha mai conosciuto: «È un paradosso, ma le uniche immagini di mio padre che parla e si muove, io le ho avute grazie ai filmati girati dai suoi aguzzini nel covo in cui lo tenevano prigioniero. Le ho guardate per intero solo qualche giorno fa, scoprendo un uomo bellissimo, disperato e rassegnato alla morte. Avrà pensato a mia madre, a me che dovevo arrivare, alla fine assurda che lo aspettava. Io ho già vissuto più di lui con questo fardello addosso, e l' esistenza di mia madre da trent' anni è come una linea spezzata. Vorrei chiedere conto di tutto questo, che cosa diceva mio padre nelle lunghe giornate di prigionia, come si comportava. Mi servirebbe per continuare a conoscerlo, visto che non mi è stato concesso di farlo di persona». Quell' infanzia mutilata, di cui Roberta si rese conto al parco giochi dove gli altri bambini arrivavano accompagnati dai papà, e quando lei domandava perché il suo non c' era la madre la portava via in lacrime, fu dovuta anche all' intransigenza dei mass media che non vollero trasmettere i filmati dell' interrogatorio di Peci, né pubblicare i proclami brigatisti, come richiesto dai sequestratori: «È un comportamento che a me riesce difficile accettare. Negli stessi giorni le Br tenevano prigioniero l' assessore della Regione Campania Ciro Cirillo, per lui lo Stato trattò e l' ostaggio fu liberato. Furono usati due pesi e due misure, e nessuno ha mai spiegato perché». Oggi l' intitolazione di una strada e l' invito al Quirinale - «dove con mia madre ci siamo ritrovate vicine a tante altre persone che hanno subito il nostro stesso destino, e le assicuro che è un aiuto importante» - per Roberta Peci è una sorta di risarcimento da parte dello Stato. Sebbene una vita vissuta da orfana non potrà essere ripagata da nessun gesto. Né delle istituzioni, né di Senzani o degli altri brigatisti, se mai dovesse arrivare: «Ormai ci credo poco, anche se non smetto di sperare». Per un periodo ha sperato che pure un' altra persona s' interessasse a lei, ma non è successo: «Patrizio, il fratello di mio padre. L' ho visto un paio di volte, da bambina, poi mai più. In fin dei conti anche lui è responsabile della morte del babbo, perché se non avesse parlato e avesse accettato le conseguenze delle sue gesta di terrorista oggi mio padre sarebbe accanto a me». Però le Br sarebbero durate più a lungo, senza i pentiti e gli arresti chissà quante altre persone sarebbero morte. «Lo so - ribatte Roberta -, ma io sono la figlia di una vittima delle Brigate rosse, di cui faceva parte Patrizio, non mio padre che era un proletario, un lavoratore con una famiglia appena avviata, vittima di un disegno che dopo trent' anni continua a non essermi chiaro fino in fondo. Aspetto ancora che qualcuno mi faccia capire perché invece di Rachele o Carlotta mi chiamo Roberta. C' è stato un tempo in cui quasi mi vergognavo di questo nome, oggi ne sono fiera».
Che la forza sia con voi!

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