venerdì 20 agosto 2010

AMICIZIA

Ho sempre pensato che quella croce, mai ostentata e col Cristo rivolto verso il cuore,  dovesse parecchio pesargli. Perché in qualche modo era una specie di visibile contraddizione con la sua dolcezza, umanità e profonda umiltà. Tratti essenziali del suo essere. Di lui che, anche da vescovo, si faceva chiamare sempre e comunque don. Don Tonino. Don Tonino Bello:  nato ad Alessano (Puglia) nel 1935, ordinato prete nel 1957 e divenuto vescovo nel 1982. L'ho conosciuto in un'estate di parecchi anni fa nel corso del consueto campo estivo di Azione Cattolica, a Chiapuzza, un paio di chilometri oltre San Vito di Cadore. A tavola lui e l'allora Patriarca di Venezia Marco Ce'. Entrambi, e da sempre, legati indissolubilmente all'esperienza dell'Azione Cattolica. Io, per uno strano gioco del destino, di fronte a loro due (e annesso siparietto finale quando io e Sua Eminenza Ce' ci contendemmo simpaticamente l'ultimo pezzo di formaggio rimasto in tavola) . Nel 1992, stanco e smagrito, lo rividi, in televisione, alla guida di una delegazione di pacifisti (lui che il Vaticano volle alla guida di Pax Christi subito dopo Luigi Bettazzi) che a piedi giunsero in una Sarajevo sotto assedio. Il male, un cancro allo stomaco, lo vincerà definitivamente il 20 aprile 1993 a Molfetta.
Ho letto molte cose di e su don Tonino (ad esempio La carezza di Dio, Sentinelle del mattino, Testamento spirituale). E oggi ho letto questo

Caro don Tonino, in tutta sincerità non ho ancora fatto pace con la tua morte: non solo perché la tua assenza brucia (e talvolta non riesco quasi a perdonarti per quel salto senza rete che ti ha proiettato oltre l'orizzonte del nostro sguardo).

Ma perché dopo è stato davvero il finimondo. Come se, calato il sipario della tua esperienza terrena, la storia umana si fosse avvitata in una spirale nichilista e buia. Come se, a noi sopravvissuti, fosse comminata la pena dell'esilio da noi stessi, dai nostri bisogni di verità e di amore. È stato molto più di una solitudine e di uno smarrimento.
Tu eri volato, con le tue ali sfibrate dalle metastasi, nel cielo della "ulteriorità" (ti rubo una parola che mi hai sussurrato l'ultima volta). Noi invece di colpo eravamo scivolati giù nei dirupi del "pensiero unico", in uno spazio interdetto alla profezia e alla carità, in un alfabeto capovolto e levantino, in un universo di piccole patrie isteriche e minacciose, dove anche lo spirito santo veniva arruolato come un gendarme atlantico o un controllore orwelliano al servizio del New West. Era come tornare nel cono d'ombra delle catacombe.
Tu trasmutato in un'icona rischiosamente consolante, noi pronti per i leoni del Colosseo globale, della fiction seriale e della mass-mediocrità.
Sono passati come un lampo tutti questi anni e ancora sento il vento tiepido di quel pomeriggio di aprile, sulla spianata in fronte al mare azzurro di Molfetta, nella mestizia popolare di quella lunga, lenta, indicibile cerimonia dell'addio. Dieci anni fa. Oppure ieri. O forse è ora.
Lo so, caro vescovo, tu intercettasti tra i primi il vento cattivo che soffiava a Occidente. Sulla sequela di Cristo ci indicasti la Via Crucis che portava a Bagdad e a Sarajevo, osando immaginare e poi incarnando - in quella "festa di dolore" che ti fece solcare la terra ghiacciata e incandescente di Bosnia - una traccia di "Onu dei poveri": che ancora oggi è per noi una pietra angolare.
Ci raccontasti il malessere partendo dal benessere e dalle sue arti marziali e dai suoi valori misurati in Borsa: non basta "consolare gli afflitti", bisogna "affliggere i consolati", così ci provocavi. E le tue non erano capriole semantiche o giochi di enigmistica. Sull'asse della tua indignazione girava un intero mappamondo a forma di Golgota: e in ogni povero cristo (disoccupato o immigrato, tossico o carcerato) tu vedevi la "regalità" del dio vivente e ci ammonivi ad accogliere e a donare.
Amore, voce del verbo morire: non stavi alludendo a una spiritualità masochista, ma alla sfida permanente della conversione: che è schiudersi agli altri, scacciare i fantasmi della paura delle diversità, conoscere e scambiare e contaminarsi e donare.
Fuoriuscire dal recinto del privilegio e dell'egoismo, recidere il filo spinato del pregiudizio nutrito di petrodollari, detronizzare la dinastia planetaria del profitto. Cambiare registro, cambiare pelle al presente, farsi costruttori di strade e pontili piuttosto che di muraglie e di barriere architettoniche. Con-dividere: farsi compagni del mondo, farsi prossimo, coniugare i verbi della conoscenza e della tenerezza per chi normalmente inchiodiamo al legno delle nostre fobie e delle nostre pigrizie.
Lo so, don Tonino, persino l'immagine teologica della Trinità - fusione perfetta di tre entità distinte - era per te l'icona di quella splendida "visione" che hai colto nella più bella delle tue espressioni: convivialità delle differenze. Come un infinito abbraccio dei popoli e delle persone, delle fedi e delle culture. Questa, sui sentieri accidentati di Isaia, è la filigrana della pace che cerchiamo.
Sarà necessario, ovviamente, mutare le nostre spade in aratri e le nostre lance in falci. E cioè cambiare in radice modello di sviluppo e forma del potere: liberando la storia umana dalla sua ipoteca di oppressione e di violenza, sradicando dalle nostre lingue ogni codice di guerra, svuotandoci dell'odio che si è lungamente sedimentato nei nostri consessi civili e nei nostri cuori.
Carissimo amico perduto e ritrovato ogni giorno, tu ci lasciasti in dono un seme di passione (che è voce del verbo patire). Fummo confitti (non sconfitti) dai chiodi del conformismo e della omologazione. Eppure continuammo a coltivare quella charitas sine modo che ci sfida e ci interpella, quei "pensieri lunghi" che quasi ci sospendono tra cielo e terra.
Continuammo, seguendo la tua ombra buona, a costruire piste di "utopia": ecco, utopia è la parola che adoperano, con intenzioni di scherno, i trafficanti di realismo, i farisei dei nostri giorni, i burocrati dei silenti genocidi mercantili. Ma a dispetto di tutte le realpolitik, di tutti i governi e di tutte le cancellerie che ci dettano la lentezza delle loro tregue e la fretta delle loro guerre, ora, gridiamolo don Tonino, ora è il tempo dell'utopia! Perché avevi ragione tu: non andiamo verso la fine, ma verso un nuovo inizio.
E io volevo dire al mio pastore, mentre lo penso con nostalgia, che quel suo seme, dopo un inverno fin troppo lungo, ha cominciato a germogliare. Le oscure catacombe hanno figliato moltitudini di battezzati alla pace. È vero: rombano già i motori della macchina holliwoodiana della "guerra infinita".
Ma ancora più forte si sente, a ogni latitudine del mappamondo, il suono di una nuova coscienza. Forse l'antica sentinella può finalmente risponderci che la notte non è più tanto lunga, che sta per finire. E così sia.

A scriverla (credo il 1 marzo 2005) il suo allievo prediletto. Uomo profondamente ed intimamente di sinistra (e ve ne sono sempre meno in questo nostro Paese), scrittore, poeta, uomo politico. Si chiama Nichi Vendola

Una delle frasi che don Tonino amava ripetere spesso recita: Quando vi rivolgete a Maria nella vostra preghiera, chiedetele che vi dia anche tanta capacità di sogno, non chiedete solo cose terra terra. Chiediamo alla Vergine che ci dia le calde utopie che riscaldano il mondo

Che la forza sia con voi!

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