MISSIONE
La carneficina di Kabul cade come un colpo di maglio sulle nostre emozioni ma
anche sulla nostra politica. Davanti al sacrificio dei sei parà la sinistra
radicale trova nuove ragioni per chiedere il ritiro immediato dall’Afghanistan,
e questo non sorprende. Il Pdl è deciso a mantenere gli impegni che l’Italia ha
assunto, e Berlusconi la sua exit strategy di lunga durata la discute con Obama.
Anche questo non può sorprendere. Semmai la novità risiede nella moltiplicazione
delle voci che con accenti diversi, in un arco che va dal Pd a Di Pietro e alla
governativa Lega, invitano a «riflettere» sulla missione dei nostri soldati e a
predisporre un nuovo approccio che li riporti a casa (secondo Bossi, entro
Natale). Sono istanze, queste, che trovano riscontro nei sondaggi
d’opinione.
E proprio per questo, perché non si inneschi una dinamica
ingannevole o per lo meno ambigua, è necessario chiarire cosa si intenda per
«riflettere». Se volessimo stare al significato letterale dell’esortazione, il
rischio è che si cada in una tardiva scoperta dell’acqua calda. La riflessione
sulle difficoltà e anche sugli insuccessi della guerra in Afghanistan non è
soltanto in atto dalle ultime fasi della presidenza Bush, non è soltanto
collettiva in sede Nato oltre che nazionale nei Paesi che hanno
mandato truppe a Kabul e dintorni, ma con l’avvento di Barack Obama
alla Casa Bianca è diventata programmatica: sono stati messi in cantiere
nuovi metodi ispirati al contenimento della guerra in Iraq, sono state disegnate
una nuova strategia regionale (Pakistan compreso) e una locale, le
elezioni sono state più subìte che volute e i rapporti con l’impopolare Karzai
sono diventati freddi, si è tentato, senza riuscirci è vero, di non
provocare più vittime civili con i bombardamenti aerei, l’enfasi è stata posta
sugli aiuti alla popolazione e, soprattutto, ha avuto luogo un radicale
cambio di prospettiva: Bush voleva esportare la democrazia in Afghanistan,
mentre Obama, d’accordo con gli europei, vuole preparare proprio una
onorevole exit strategy.
È vero che riflettere non fa mai male, e dunque ben
venga la riflessione invocata. Purché si sappia che l’esercizio è in atto da
tempo, e difficilmente potrà portare a qualcosa di nuovo. A meno che per
«riflettere» si voglia intendere una cosa diversa. A meno che dietro
questo civilissimo invito ci sia una pura e semplice voglia di ritirata, un
«tutti a casa » non estraneo alla nostra memoria storica. Se così
fosse, superando l’orrore e la pietà del momento, la nostra scelta sarebbe
di rispondere con il più fermo dei no. Più che mai nei momenti tragici come
questo, non bisogna avere paura di ripetersi. La presenza militare
occidentale in Afghanistan ha una legittimità ben diversa da quella che
ebbe in Iraq. Mettere le gambe in spalla prima di aver raggiunto un
minimo grado di stabilizzazione del Paese vorrebbe dire darla vinta ai
talebani che hanno rivendicato l’attacco alle Torri Gemelle, gettare olio
sul fuoco di tutti gli estremismi anti-occidentali a cominciare da quelli che
ricorrono al terrorismo, e far saltare gli equilibri interni nel Pakistan
dotato di armi nucleari. La Nato può immaginare una exit strategy , le
idee non mancano (la Spagna ha proposto una durata-limite di altri
cinque anni), ma per l’Italia come per altri sarebbe un suicidio politico
muoversi da sola e tradire le regole di un impegno comune al massimo livello.
Infine, non esiste la possibilità di rivendicare un mandato diverso per le
forze italiane (oltre a quanto già viene fatto) e l’Italia deve anzi capire
che quella afghana è una guerra, sebbene accompagnata da una missione di
aiuto.
«Riflettere» sul ritiro chiusi nei palazzi della nostra politica,
insomma, sarebbe impossibile oltre che autolesionista. Questo non ci
impedisce di guardare in faccia una realtà semplice quanto terribile: la guerra
in Afghanistan, noi e i nostri alleati, la stiamo perdendo. Può darsi che
l’attacco al convoglio italiano sia stato una crudele risposta alla
sfacciata auto-proclamazione di un Karzai dimentico degli accertati brogli
elettorali. Non crediamo invece che l’Italia sia stata individuata dai talebani
come anello debole dell’alleanza, tant’è che le perdite sono a livello
record per tutti i contingenti. Ma quale che sia la tela di fondo del
massacro dei parà italiani, in Afghanistan è ormai scattata una corsa
contro il tempo. Si potrà ancora conquistare il consenso della popolazione che
non imbraccia il Kalashnikov, avranno davvero luogo le svolte
annunciate da Obama, c’è ancora la possibilità che l’Afghanistan non
sia anche per l’Occidente quella «tomba degli imperi» che è già stato per i
britannici e i sovietici? Inutile negarlo, i fantasmi del Vietnam e della
Somalia sono in agguato. Non sarà facile allontanarli ma abbiamo ancora
ottimi motivi per provarci, tutti insieme e senza nasconderci dietro
«riflessioni» liquidatorie.
Che la forza sia con voi
Etichette: SOCIETA
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