mercoledì 9 dicembre 2009

QUARANT'ANNI DOPO....

Alle 16,37 del 12 dicembre 1969, all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano, scoppia una bomba: morirono 17 persone e 88 furono i feriti.
Gra i sopravvissuti Giacomo Ferrari, allora impiegato della banca ed oggi giornalista de Il Corriere. Questa la sua testimonianza:
«La caldaia... È scoppiata la caldaia». All’inizio nessu­no ha pensato a una bom­ba. Il botto era stato assor­dante. Nel piccolo ufficio nel quale lavora­vo, immediatamente a ridosso del salone dove era stato collocato l’ordigno, la pri­ma reazione fu di sorpresa. Poi, le urla dei feriti, l’arrivo delle ambulanze, il caos, il panico. Piazza Fontana, Milano, venerdì 12 dicembre 1969: un luogo e una data passati alla storia. Mi riesce difficile scri­vere in prima persona. Non mi piace. Que­sta è la prima volta che lo faccio. E non è una questione di forma: un giornalista do­vrebbe sempre stare fuori da ciò che rac­conta. Distaccato, mai «tifoso». Anche nel linguaggio.
Questa volta però è diverso. Questa volta l'invito a raccontare quel giorno sporco di sangue arriva a qua­rant’anni dalla strage che ha segnato la storia recente d’Italia. Data l’eccezionali­tà, ho superato ogni ritrosia. E il lettore mi perdonerà la lunga introduzione. Ne­cessaria però a spiegare che cosa ci faces­se un futuro giornalista del Corriere all’in­terno della banca, in piazza Fontana, nel giorno della bomba. Veniamo dunque a quel venerdì pome­riggio. Una giornata fredda e nebbiosa, ma anche vigilia di weekend e quindi in qualche modo gioiosa. Soprattutto per me che, oggi lo posso dire, vivevo l’allora condizione di impiegato bancario come una specie di incubo. Interrotto fortunata­mente dal fine settimana, due giorni in cui potevo tornare a occuparmi d’altro. Quello del bancario non era il mestiere dei miei sogni. Da giovane matricola di Scienze Politiche all’Università di Pavia (il «papiro», il lasciapassare per circolare in­disturbato nella cittadella universitaria, mi era stato rilasciato da Carlo Rossella, capo della goliardia, per due stecche di Marlboro) avevo incominciato a frequen­tare la redazione della Provincia Pavese. Un giorno, però, arrivò inattesa la de­nuncia di «abusivismo» (poi archiviata) da parte del sindacato dei giornalisti. Fu così che nel giro di un mese, grazie al fat­to di essere orfano di un bancario (mio pa­dre aveva diretto la piccola filiale di Riva­nazzano della Banca nazionale dell’agricol­tura) mi ritrovai dipendente della stessa banca. A Milano, sede di piazza Fontana.
Per mia fortuna non dovetti occuparmi di cambiali e assegni. Assegnato all’uffi­cio titoli, quell’esperienza mi tornò utile quando, anni dopo, riuscii a coronare il sogno di entrare in un giornale. Pratican­te a Il Mondo , poi a Torino alla Gazzetta del Popolo , due anni al Sole 24 ore , poi an­cora al Mondo e, dal 1986, al Corriere. Sempre a occuparmi di economia. Dunque, il pomeriggio del 12 dicembre 1969 sono al lavoro all’ufficio titoli. Tra una pratica e l’altra arriva l’ora della pau­sa caffè. Il mio dirimpettaio di scrivania, Mario Begnini, una successiva carriera in Banca Intesa, si sta sbracciando per invi­tarmi a chiudere in fretta una telefonata e andare con lui al distributore automatico. Che, rispetto alla nostra postazione, si tro­vava esattamente dall’altro lato del salo­ne. Era un’abitudine, una specie di rito che si ripeteva ogni giorno più o meno al­la stessa ora. Il colloquio telefonico, però, va per le lunghe. Più del previsto. Final­mente i saluti. Nello stesso istante in cui riaggancio la cornetta del telefono, il bot­to. Con i muri che tremano, i mobili che si spostano come quando c’è un terremoto. Una porta, poco utilizzata, in cima a una scala secondaria che conduce al caveau sotterraneo, si stacca insieme con gli stipi­ti e colpisce un collega, fortunatamente senza conseguenze. La vetrata che dà in piazza Fontana va in frantumi. Si pensa subito allo scoppio della calda­ia. Ma c’è anche chi avanza l’ipotesi della bomba. L’attiguo salone circolare, intan­to, sembra un campo di battaglia. Quel sa­lone ancora pieno di gente nonostante la chiusura degli sportelli, che avrei dovuto attraversare con il mio amico per il rito del caffè. La lunga telefonata, proprio co­me in un vecchio spot televisivo, mi ha salvato la vita.
Ricordo la sequenza degli eventi nei primi minuti dopo lo scoppio. Al di là del bancone, persone che si lamen­tano, corpi già senza vita, gli impiegati che cercano di offrire i primi soccorsi. Un collega pensa all’unica ragazza dell’uffi­cio, Franca, segretaria del direttore: vuole risparmiarle la vista di quello scempio, le copre il viso con la giacca mentre l’accom­pagna fuori. Su una scrivania, in mezzo al­le pratiche sparse e impolverate, vedo una scarpa. Scoprirò poco dopo con racca­priccio che conteneva un piede. I miei ricordi si fermano qui. Riconosco di avere avuto paura e di non essermi da­to da fare come altri colleghi nell’opera di soccorso dei feriti. Uscito all’esterno per scuotermi con un cognac al bar di via San­ta Tecla, vengo colto dal rimorso e cerco di rientrare. Troppo tardi. La Polizia e i pompieri avevano già transennato tutto.
A distanza di 40 anni ancora nulla si sa di chi siano stati i veri mandanti dell'attentato che avviò quella che in seguito sarà chiamata la strategia della tensione.
E però un buon punto di partenza sono due libri.
Il primo, La strage (edito da Feltrinelli), è scritto da Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese: libro importante, accurato, ricchissimo di notizie (c'è anche una pagina che riguarda una nota villa di Mira che, secondo i due autori, svolge un ruolo non secondario).
Il secondo, Piombo rosso (edito da Baldini & Castoldi) , di Giorgio Galli: una accurata ricostruzione del terrorismo dalla sua nascita ai giorni nostri.
Questa è invece parte della dichiarazione resa dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano:
Mi chiedo se in altri paesi fatti come quelli vissuti in Italia tra la fine degli anni '60 e gli anni '80, quelli del terrorismo prima subdolo e poi ideologicamente dichiarato, si siano verificati. Credo si possa dire che molti paesi abbiano consolidato la loro democrazia passando attraverso drammi simili. Si puo' dire anche per gli Stati Uniti, dove c'e' stato l'assassinio del presidente e ancora non tutte le ombre su quel delitto sono state dissipate.
Ma nulla di tutto cio' puo' togliere a noi la drammaticita' della ferita inferta dal terrorismo, che ha lasciato interrogativi angosciosi e una lezione da seguire per evitare i fatti di cui voi conservate i segni della sofferenza
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Che la forza sia con voi!

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