QUARANT'ANNI DOPO....
Alle 16,37 del 12 dicembre 1969, all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano, scoppia una bomba: morirono 17 persone e 88 furono i feriti.
Gra i sopravvissuti Giacomo Ferrari, allora impiegato della banca ed oggi giornalista de Il Corriere. Questa la sua testimonianza:
«La caldaia... È scoppiata la caldaia». All’inizio nessuno ha pensato a una bomba. Il botto era stato assordante. Nel piccolo ufficio nel quale lavoravo, immediatamente a ridosso del salone dove era stato collocato l’ordigno, la prima reazione fu di sorpresa. Poi, le urla dei feriti, l’arrivo delle ambulanze, il caos, il panico. Piazza Fontana, Milano, venerdì 12 dicembre 1969: un luogo e una data passati alla storia. Mi riesce difficile scrivere in prima persona. Non mi piace. Questa è la prima volta che lo faccio. E non è una questione di forma: un giornalista dovrebbe sempre stare fuori da ciò che racconta. Distaccato, mai «tifoso». Anche nel linguaggio.
Questa volta però è diverso. Questa volta l'invito a raccontare quel giorno sporco di sangue arriva a quarant’anni dalla strage che ha segnato la storia recente d’Italia. Data l’eccezionalità, ho superato ogni ritrosia. E il lettore mi perdonerà la lunga introduzione. Necessaria però a spiegare che cosa ci facesse un futuro giornalista del Corriere all’interno della banca, in piazza Fontana, nel giorno della bomba. Veniamo dunque a quel venerdì pomeriggio. Una giornata fredda e nebbiosa, ma anche vigilia di weekend e quindi in qualche modo gioiosa. Soprattutto per me che, oggi lo posso dire, vivevo l’allora condizione di impiegato bancario come una specie di incubo. Interrotto fortunatamente dal fine settimana, due giorni in cui potevo tornare a occuparmi d’altro. Quello del bancario non era il mestiere dei miei sogni. Da giovane matricola di Scienze Politiche all’Università di Pavia (il «papiro», il lasciapassare per circolare indisturbato nella cittadella universitaria, mi era stato rilasciato da Carlo Rossella, capo della goliardia, per due stecche di Marlboro) avevo incominciato a frequentare la redazione della Provincia Pavese. Un giorno, però, arrivò inattesa la denuncia di «abusivismo» (poi archiviata) da parte del sindacato dei giornalisti. Fu così che nel giro di un mese, grazie al fatto di essere orfano di un bancario (mio padre aveva diretto la piccola filiale di Rivanazzano della Banca nazionale dell’agricoltura) mi ritrovai dipendente della stessa banca. A Milano, sede di piazza Fontana.
Per mia fortuna non dovetti occuparmi di cambiali e assegni. Assegnato all’ufficio titoli, quell’esperienza mi tornò utile quando, anni dopo, riuscii a coronare il sogno di entrare in un giornale. Praticante a Il Mondo , poi a Torino alla Gazzetta del Popolo , due anni al Sole 24 ore , poi ancora al Mondo e, dal 1986, al Corriere. Sempre a occuparmi di economia. Dunque, il pomeriggio del 12 dicembre 1969 sono al lavoro all’ufficio titoli. Tra una pratica e l’altra arriva l’ora della pausa caffè. Il mio dirimpettaio di scrivania, Mario Begnini, una successiva carriera in Banca Intesa, si sta sbracciando per invitarmi a chiudere in fretta una telefonata e andare con lui al distributore automatico. Che, rispetto alla nostra postazione, si trovava esattamente dall’altro lato del salone. Era un’abitudine, una specie di rito che si ripeteva ogni giorno più o meno alla stessa ora. Il colloquio telefonico, però, va per le lunghe. Più del previsto. Finalmente i saluti. Nello stesso istante in cui riaggancio la cornetta del telefono, il botto. Con i muri che tremano, i mobili che si spostano come quando c’è un terremoto. Una porta, poco utilizzata, in cima a una scala secondaria che conduce al caveau sotterraneo, si stacca insieme con gli stipiti e colpisce un collega, fortunatamente senza conseguenze. La vetrata che dà in piazza Fontana va in frantumi. Si pensa subito allo scoppio della caldaia. Ma c’è anche chi avanza l’ipotesi della bomba. L’attiguo salone circolare, intanto, sembra un campo di battaglia. Quel salone ancora pieno di gente nonostante la chiusura degli sportelli, che avrei dovuto attraversare con il mio amico per il rito del caffè. La lunga telefonata, proprio come in un vecchio spot televisivo, mi ha salvato la vita.
Ricordo la sequenza degli eventi nei primi minuti dopo lo scoppio. Al di là del bancone, persone che si lamentano, corpi già senza vita, gli impiegati che cercano di offrire i primi soccorsi. Un collega pensa all’unica ragazza dell’ufficio, Franca, segretaria del direttore: vuole risparmiarle la vista di quello scempio, le copre il viso con la giacca mentre l’accompagna fuori. Su una scrivania, in mezzo alle pratiche sparse e impolverate, vedo una scarpa. Scoprirò poco dopo con raccapriccio che conteneva un piede. I miei ricordi si fermano qui. Riconosco di avere avuto paura e di non essermi dato da fare come altri colleghi nell’opera di soccorso dei feriti. Uscito all’esterno per scuotermi con un cognac al bar di via Santa Tecla, vengo colto dal rimorso e cerco di rientrare. Troppo tardi. La Polizia e i pompieri avevano già transennato tutto.
Questa volta però è diverso. Questa volta l'invito a raccontare quel giorno sporco di sangue arriva a quarant’anni dalla strage che ha segnato la storia recente d’Italia. Data l’eccezionalità, ho superato ogni ritrosia. E il lettore mi perdonerà la lunga introduzione. Necessaria però a spiegare che cosa ci facesse un futuro giornalista del Corriere all’interno della banca, in piazza Fontana, nel giorno della bomba. Veniamo dunque a quel venerdì pomeriggio. Una giornata fredda e nebbiosa, ma anche vigilia di weekend e quindi in qualche modo gioiosa. Soprattutto per me che, oggi lo posso dire, vivevo l’allora condizione di impiegato bancario come una specie di incubo. Interrotto fortunatamente dal fine settimana, due giorni in cui potevo tornare a occuparmi d’altro. Quello del bancario non era il mestiere dei miei sogni. Da giovane matricola di Scienze Politiche all’Università di Pavia (il «papiro», il lasciapassare per circolare indisturbato nella cittadella universitaria, mi era stato rilasciato da Carlo Rossella, capo della goliardia, per due stecche di Marlboro) avevo incominciato a frequentare la redazione della Provincia Pavese. Un giorno, però, arrivò inattesa la denuncia di «abusivismo» (poi archiviata) da parte del sindacato dei giornalisti. Fu così che nel giro di un mese, grazie al fatto di essere orfano di un bancario (mio padre aveva diretto la piccola filiale di Rivanazzano della Banca nazionale dell’agricoltura) mi ritrovai dipendente della stessa banca. A Milano, sede di piazza Fontana.
Per mia fortuna non dovetti occuparmi di cambiali e assegni. Assegnato all’ufficio titoli, quell’esperienza mi tornò utile quando, anni dopo, riuscii a coronare il sogno di entrare in un giornale. Praticante a Il Mondo , poi a Torino alla Gazzetta del Popolo , due anni al Sole 24 ore , poi ancora al Mondo e, dal 1986, al Corriere. Sempre a occuparmi di economia. Dunque, il pomeriggio del 12 dicembre 1969 sono al lavoro all’ufficio titoli. Tra una pratica e l’altra arriva l’ora della pausa caffè. Il mio dirimpettaio di scrivania, Mario Begnini, una successiva carriera in Banca Intesa, si sta sbracciando per invitarmi a chiudere in fretta una telefonata e andare con lui al distributore automatico. Che, rispetto alla nostra postazione, si trovava esattamente dall’altro lato del salone. Era un’abitudine, una specie di rito che si ripeteva ogni giorno più o meno alla stessa ora. Il colloquio telefonico, però, va per le lunghe. Più del previsto. Finalmente i saluti. Nello stesso istante in cui riaggancio la cornetta del telefono, il botto. Con i muri che tremano, i mobili che si spostano come quando c’è un terremoto. Una porta, poco utilizzata, in cima a una scala secondaria che conduce al caveau sotterraneo, si stacca insieme con gli stipiti e colpisce un collega, fortunatamente senza conseguenze. La vetrata che dà in piazza Fontana va in frantumi. Si pensa subito allo scoppio della caldaia. Ma c’è anche chi avanza l’ipotesi della bomba. L’attiguo salone circolare, intanto, sembra un campo di battaglia. Quel salone ancora pieno di gente nonostante la chiusura degli sportelli, che avrei dovuto attraversare con il mio amico per il rito del caffè. La lunga telefonata, proprio come in un vecchio spot televisivo, mi ha salvato la vita.
Ricordo la sequenza degli eventi nei primi minuti dopo lo scoppio. Al di là del bancone, persone che si lamentano, corpi già senza vita, gli impiegati che cercano di offrire i primi soccorsi. Un collega pensa all’unica ragazza dell’ufficio, Franca, segretaria del direttore: vuole risparmiarle la vista di quello scempio, le copre il viso con la giacca mentre l’accompagna fuori. Su una scrivania, in mezzo alle pratiche sparse e impolverate, vedo una scarpa. Scoprirò poco dopo con raccapriccio che conteneva un piede. I miei ricordi si fermano qui. Riconosco di avere avuto paura e di non essermi dato da fare come altri colleghi nell’opera di soccorso dei feriti. Uscito all’esterno per scuotermi con un cognac al bar di via Santa Tecla, vengo colto dal rimorso e cerco di rientrare. Troppo tardi. La Polizia e i pompieri avevano già transennato tutto.
A distanza di 40 anni ancora nulla si sa di chi siano stati i veri mandanti dell'attentato che avviò quella che in seguito sarà chiamata la strategia della tensione.
E però un buon punto di partenza sono due libri.
Il primo, La strage (edito da Feltrinelli), è scritto da Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese: libro importante, accurato, ricchissimo di notizie (c'è anche una pagina che riguarda una nota villa di Mira che, secondo i due autori, svolge un ruolo non secondario).
Il secondo, Piombo rosso (edito da Baldini & Castoldi) , di Giorgio Galli: una accurata ricostruzione del terrorismo dalla sua nascita ai giorni nostri.
Questa è invece parte della dichiarazione resa dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano:
Mi chiedo se in altri paesi fatti come quelli vissuti in Italia tra la fine degli anni '60 e gli anni '80, quelli del terrorismo prima subdolo e poi ideologicamente dichiarato, si siano verificati. Credo si possa dire che molti paesi abbiano consolidato la loro democrazia passando attraverso drammi simili. Si puo' dire anche per gli Stati Uniti, dove c'e' stato l'assassinio del presidente e ancora non tutte le ombre su quel delitto sono state dissipate.
Ma nulla di tutto cio' puo' togliere a noi la drammaticita' della ferita inferta dal terrorismo, che ha lasciato interrogativi angosciosi e una lezione da seguire per evitare i fatti di cui voi conservate i segni della sofferenza.
Ma nulla di tutto cio' puo' togliere a noi la drammaticita' della ferita inferta dal terrorismo, che ha lasciato interrogativi angosciosi e una lezione da seguire per evitare i fatti di cui voi conservate i segni della sofferenza.
Che la forza sia con voi!
Etichette: SOCIETA
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