venerdì 28 maggio 2010

IN NOME DEL PADRE

Dal Corriere

Mio padre non un eroe di Luca Tobagi

ma testimone dell’impegno


 

Che cosa significa, per un figlio, custodire la memoria di un padre come Walter Tobagi a distanza di trent’anni? Innanzitutto, conservare il ricordo di un padre affettuoso e premuroso, presente e desideroso di poter dare un futuro migliore non solo ai suoi figli, ma a tutto il Paese, attraverso l’impegno nel suo lavoro. Su mio padre sono state dette e scritte molte cose. È stato commemorato in vari modi e circostanze, e ringrazio tutti coloro che ne hanno mantenuto vivo il ricordo.




La sua figura è stata un complesso intreccio di passione e impegno civili e professionali. I miei familiari e io non abbiamo mai nascosto né sminuito l’importanza delle sue idee politiche, della sua fede religiosa, o della dedizione al suo mestiere. Talvolta le commemorazioni si sono concentrate su uno solo di questi aspetti. Mi pare che nessuno di questi elementi, da solo, restituisca l’immagine corretta di un uomo che ha compreso la responsabilità sociale associata ai comportamenti individuali di alcuni di noi. Chi è in grado di analizzare una realtà difficile e renderla comprensibile comunicando, così come chi detiene altri tipi di ricchezza o potere, ha una responsabilità verso gli altri alla quale non è giusto sottrarsi. Uno dei principi che mi hanno guidato in questi anni, oltre alla riservatezza sul modo di vivere una vicenda che, nonostante gli importanti risvolti pubblici, continuo a ritenere in larga misura privata e personale, è stato l’apertura alla conoscenza, l’ascolto e il dialogo con tutti che ha sempre caratterizzato i comportamenti di mio padre. Per questo, al di là dei miei sentimenti e delle mie opinioni (credo che il miglior modo di ricordarlo sia attraverso la lettura, il più possibile organica, dei suoi scritti e del libro di mia sorella Benedetta), ne ho sempre accettato le commemorazioni: non tanto perché fosse importante che se ne parlasse, quanto perché ho sempre ritenuto che la sua memoria fosse un patrimonio comune e che lui non si sarebbe mai sottratto all’incontro con qualcuno, anche di idee e atteggiamenti molto diversi dai suoi. Tuttavia, per una volta in trent’anni, qualche puntualizzazione si rende necessaria.



Condividere la memoria non significa concedere a chiunque il diritto di appropriarsene. Con il trascorrere del tempo, persone che hanno partecipato, nella migliore delle ipotesi, solo ad alcune delle idee e delle iniziative riformiste di mio padre quando era vivo, o che lo hanno conosciuto fugacemente o solo per sentito dire, hanno provato ad accostare al suo nome appartenenze e realtà (anche di oggi) che con lui hanno avuto poco o nulla a che fare se non qualche etichetta. Ciò, secondo me, rappresenta una distorsione della figura di mio padre ed una forzatura, quando non addirittura un travisamento, della realtà.



Lo dico senza risentimento o intenti polemici, ma solo perché la mia discrezione di tanti anni non venga scambiata per condiscendenza o approvazione. E questo mi porta alla seconda considerazione: la memoria non va solo custodita o difesa, ma anche coltivata, perché porti frutto. Del lavoro di mio padre è stata sovente sottolineata la modernità. Sicuramente era un uomo intelligente e capace di cogliere nelle sue analisi dei fenomeni sociali, con una certa lungimiranza, i segnali di situazioni e problemi che si sarebbero sviluppati nel tempo. Di ciò non posso che essere orgoglioso.



Ma se il suo lavoro sembra ancora attuale, a trent’anni dalla sua morte, non può essere soltanto per la sua modernità. Purtroppo, ed è per me motivo di profonda afflizione, ciò dipende dal fatto che la società italiana, sotto alcuni aspetti critici, non è cambiata molto in questi decenni.



Le lacerazioni e il disprezzo dei valori umani e civili, che mio padre ha cercato di contrastare con il suo impegno in vita, sono presenti ancora oggi, in forme fortunatamente diverse, ma purtroppo sempre intensi. Questa realtà mi interpella come figlio, padre e cittadino. Forse è giunto il momento di trasformare il ricordo e l’eredità intellettuale di un uomo come Walter Tobagi in uno stimolo individuale e collettivo.



Uno stimolo a moderare i toni delle discussioni, troppo spesso irrispettosi dell’interlocutore ed eccessivamente veementi, senza tuttavia transigere sul rigore delle argomentazioni, che dovrebbero essere razionali e solidamente documentate, mentre spesso, dietro agli atteggiamenti aggressivi, si cela la loro grande fragilità.



Uno stimolo a riappropriarci del senso dello Stato, dei valori della legalità, del dibattito aperto e della normalità, a cominciare dalla lingua. Per superare il paradosso di un Paese in cui, se si sorprende qualcuno che ruba, è lecito sparargli addosso, ma non lo si può chiamare ladro prima del terzo grado di giudizio senza essere bollati come giustizialisti.



Uno stimolo a irrobustire la coscienza civile dei cittadini partendo dal fondamento dell’istruzione pubblica, che deve tornare ad essere uno strumento educativo e di mobilità sociale per i giovani, come lo è stata per mio padre, ed essere potenziata, non depauperata. Uno stimolo a dedicare tempo ed energie all’analisi e alla riflessione, in una società ripiegata verso una faziosità di basso profilo e una emotività di rapido consumo, e in cui è andata smarrita la nozione che il bene pubblico sia qualcosa di diverso e superiore rispetto alla somma degli interessi privati. Forse a mio padre sarebbe piaciuto che il testimone del suo impegno venisse raccolto innanzitutto dai suoi colleghi giornalisti e da coloro che si occupano di amministrare il nostro Paese, ma non solo. La lezione importante della sua vita, infatti, è quella di non aver cercato di essere un eroe, ma di essersi assunto la sua parte di responsabilità civile, contribuendo ad affrontare problematiche difficili e drammatiche con gli strumenti a sua disposizione: duro lavoro, talento, disciplina, onestà, coraggio. È confortante, per me, riconoscere il medesimo slancio di generosità ed onestà intellettuale nelle tante persone che ogni giorno si spendono con tenacia e discrezione per il bene dell’Italia. Possiamo farlo tutti noi, ciascuno con i suoi limiti.



E quando vediamo donne e uomini che si impegnano per denunciare i problemi del nostro Paese, senza limitarsi ad una critica sterile, ma sforzandosi di proporre idee utili a superarli, possiamo sostenerli, evitando di isolarli, come talvolta è accaduto e ancora accade. Questo è un tipo di amore che mi piacerebbe veder prevalere su odio, egoismo e indifferenza. E sarebbe un ricordo concreto di mio padre proiettato verso la vita e il futuro, non il passato e la morte. Trent’anni dopo, credo lo meriti, e sono certo che lo gradirebbe.

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