mercoledì 3 ottobre 2007

DELLA MALATTIA

Cosa significa malattia? Qual è la condizione in cui l'essere umano soffre a tal punto da chiedere che venga posta fine a questa sua agonia? Quale è, se c'é, il senso ultimo del dolore? E' strano: queste domande mi stanno frullando da un pò in testa. Per via di alcune vicende familiari che mi sono accadute. A partire da una morte che ancora non riesco ad elaborare, e che dunque ancora non ho interiorizzato. Tutto accadde, quella sera di inizio marzo, così improvvisamente che la prima sensazione che ho avuto è stata quella dell'impotenza, dell'incapacità di cogliere il senso di quanto accaduto. Ricordo che la prima domanda che mi posi mentre, nell'astanteria del Pronto Soccorso di Dolo, attendevo dai medici qualche notizia (eppure 10 anni da giornalista di cui alcuni trascorsi in cronaca nera avrebbero dovuto farmi capire che la sigla "codice rosso" significava una situazione irreparabile) era: "ma qui non c'è un posto dove piangere in solitudine?". Quando poi vi fu il trasferimento all'Ospedale di Mestre acquisii una lucidità che non avrebbe dovuto appartenermi, tanto da dichiararmi assolutamente disponibile alla donazione degli organi quando ancora in lei sopravvivevano alcuni flebili segnali di una vita che stava fuggendo via. E ricordo, come fosse ieri, la strizzata d'occhio ricevuta da un medico quando oramai tutto era compiuto: in quel gesto così semplice, così banale ho trovato una umanità che molto mi ha aiutato. Paradossalmente quello fu uno di quei momenti in cui scoprii la consolazione che veniva dal riconoscere che di fronte ad un evento di questo tipo, assolutamente spiegabile dalla medicina (una stupida, piccolissima, vena nell'emisfero cerebrale sinistro che improvvisamente scoppia) ma assolutamente irrazionale per me, potevo per così dire riconoscere la limitatezza del mio essere umano. Consolatorio ma non sufficiente per metabolizzare questa ferita. Poi sono subentrati altri fatti. Fatti che riguardano altre persone a me molto vicine e davvero molto care. Fatti che mi portano a chiedermi quale senso, se c'è, dare alla esperienza del dolore, della malattia. Ad interrogarmi se di fronte alla malattia, di fronte a questo intruso che entra nel tuo corpo e ti fa assaporare l'irrisoria utopia della immortalità, laici e credenti sono in qualche modo uguali. Mi chiedo: un credente può aver paura della morte? Perché, nella teologia, la morte è vista come una porta che apre alla vita eterna che poi dovrebbe essere il fine ultimo della nostra esistenza umana. Si può accettare la malattia, la sofferenza, la morte con serenità? Ed in rapporto alla morte che tutto rende uguale, quale senso dare alla vita? San Francesco aveva il coraggio di chiamare la morte "sorella morte" ad indicare che anch'essa è parte integrante della nostra vita. Ma Oriana Fallaci (una delle autrici che più ho amato ad eccezione dei volumi legati a La rabbia e l'orgoglio) chiamava"l'alieno" il cancro che la affliggeva, ad indicare una separatezza fra sè e la malattia e dunque ponendo un confine insuperabile. Quasi che il consapevole non - riconoscimento della propria malattia non solo ne esorcizzasse la paura ma, ponendolo in una realtà altra dal sè, la immunizzasse. Ed io fra San Francesco e la Fallaci pendo (in questo) dalla parte della giornalista toscana. Ma mi chiedo anche: l'uomo contemporaneo ha paura della morte o piuttosto della sofferenza? Ha paura dell'ultimo respiro che lo distacca ferocemente dai suoi affetti, dal suo mondo o, piuttosto, ha paura che quell'ultimo soffio sia accompagnato dal dolore? Oggi facciamo di tutto per nascondere la morte: quando negli ospedali qualcuno è ormai prossimo alla cessazione della vita, immediatamente viene trasferito in un altra stanza oppure il suo letto d'agonia circondato da qualche telo verde che lo separa dagli altri malati. Perché? Per offire ai suoi familiari una intimità altrimenti impensabile? O piuttosto perché non si vuol riconoscere che anche la morte è parte integrante di questo mistero buffo che chiamiamo vita?
Ma noi, ma io, come ci misuriamo col rapporto morte/sofferenza? In pieno "caso Welby" (dove quella negazione ai funerali religiosi l'ho sentita come una ferita), l'inserto domenicale del Sole 24 ore ha ospitato un bellissimo intervento del cardinal Martini. L'ex vescovo di Milano, malato da tempo, rifletteva su questi stessi temi dicendosi assolutamente favorevole al riconoscimento del diritto del malato ad interrompere l'intervento medico quando questo non è più utile alla guarigione ma al semplice prolungamento della esistenza. Può essere questo un buon punto di partenza su cui confrontarsi?


Morire come le allodole assetate
sul miraggio
O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha più voglia
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato
G. Ungaretti, 1914/1915

Il libro per questo week end? In realtà sono due:
Giorgio Caproni, L'opera in versi, Meridiani, Mondadori, Milano 1998
Massimo Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, 2004

Che la forza sia con voi







3 Commenti:

Anonymous Anonimo ha detto...

Il dolore e la morte non si metabolizzano mai, né ci si abitua ad essi, né possiamo però fingere che non ci siano, che siano "altro" da noi, perché appena giriamo lo sguardo ci stanno intorno... Non ci resta che accettarli, accettare che esistano così come il resto. Non ci resta che affrontarli e, magari, combatterli finché si può, finché ne abbiamo la forza e finché ha senso. E, secondo me, ha senso finché non sia chi sta male a diventare, a sentirsi, "altro". Come credente e per ciò che sento dentro, difficilmente immagino riuscirei a "staccare la spina", ma altra cosa è condannare chi, con cuore e buon senso, con un dolore che immagino incommensurabile decide di farlo. Sorella morte o alieno che sia... Fingere che non esista non rende la verità meno vera, così come il dolore, così come ogni altra cosa su questa terra. Per fortuna incontriamo medici che strizzano l'occhio, amici che ci abbracciano, perfetti sconosciuti che ci incoraggiano...

8 ottobre 2007 alle ore 18:47  
Anonymous Anonimo ha detto...

“Mi chiedo: un credente può aver paura della morte? Perché, nella teologia, la morte è vista come una porta che apre alla vita eterna che poi dovrebbe essere il fine ultimo della nostra esistenza umana.”

Io non sono quello che si può definire un credente. Ritengo comunque il Vangelo un libro assolutamente da leggere e nel Vangelo leggo che il Figlio di Dio morendo ha detto “Padre mio perché mi hai abbandonato?”, anzi l’ha urlato! Ora, se era veramente Figlio di Dio sapeva bene come “doveva” andare a finire, ciononostante ha avuto paura tanto da urlarla senza ritegno. Se invece era un uomo come tutti, ha avuto ugualmente e intensamente e giustamente paura.
Credo che nessuno si senta mai così solo come di fronte alla morte - durante la vita in un modo o nell’altro non siamo o ci illudiamo di non essere del tutto e completamente soli- e nella radicale solitudine credo che nessuno non possa non avere paura, credente o non credente.

11 ottobre 2007 alle ore 12:35  
Blogger Il sito di Davide ha detto...

Caro "un amico" hai ragione..e però il Figlio di Dio che era anche "figlio dell'uomo" dopo l'umanità espressa con la paura della morte riscopre la propria natura divina dicendo "fa la tua e non la mia volontà". E forse questa è la soglia che nessun credente (diciamocelo chiaro" riesce a superare...

11 ottobre 2007 alle ore 13:35  

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