COLORI
Storie Giochi (senza discriminazioni) sulla riviera di Barcola
Il bambino che ignora il colore della pelle
Dalla scogliera di Trieste, tra una folla abitudinaria e tranquilla, una piccola lezione sull’identità e sull’amicizia
Sulla riviera di Barcola, a Trieste. Si fa per dire, riviera; una sottile striscia di scogli, spiaggia libera che costeggia la strada principale di accesso alla città, acqua subito profonda, sulla riva tamerici spumose come onde, un orizzonte marino vasto e aperto, che nell’infanzia dava il senso dell’immensità oceanica, in un’educazione sentimentale in cui s’imparava una volta per tutte il legame fra l’eros e il mare. Quella gente in costume da bagno, non in uno stabilimento né su una vera spiaggia, ma alle porte della città e quasi già in città, dà un’impressione di vita persuasa e goduta.
Trieste non è solo crocevia tra est e ovest, come recita la sua didascalia, ma pure fra nord e sud, fra la malinconia scandinava di certi tramonti d’inverno e la vitalità meridionale dell’estate. In fondo al golfo, dove le acque italiane divengono slovene e poi croate, si vedono il Duomo di Pirano, la plurisecolare orma del leone di S. Marco nell’Istria, e più avanti Punta Salvore, col suo faro e i suoi pini nel vento. La popolazione che da maggio a ottobre, e soprattutto in agosto, arriva ogni giorno su quella scogliera di Barcola è abitudinaria; per tacita convenzione, ognuno di noi ha il suo posto sulla riva, genericamente rispettato dai vicini, con cui s’intrattengono rapporti garbati ma senza prendersi né dare confidenza. Ogni tanto aleggia, annunciata sui giornali, la minaccia di divieti, piani regolatori, costruzioni di stabilimenti a pagamento o di porticcioli turistici, minaccia finora ogni volta sventata da pugnaci lettere inviate alla stampa e alle autorità dagli uomini di penna, numerosi e assidui fra quei bagnanti, e da proteste che arrivano da triestini residenti da anni a New York o ad Adelaide ma non dimentichi di quella scogliera. Le autorità, a dire il vero, dimostrano di comprendere che quella libertà di «tocio» ossia di tuffo è un bene pubblico, una buona qualità di vita collettiva, e si preoccupano delle docce gratuite e delle tamerici.
Qualche anno fa la scogliera era salita alla ribalta delle cronache grazie a un annegato, il cui corpo riportato a riva e coperto da un lenzuolo era rimasto a lungo in mezzo ai bagnanti che avevano continuato a prendere il sole accanto a lui, in quella familiare indifferenza della vita per la morte che la grande e rovente luce dell’estate rende ancora più spietata. Pochi gli schiamazzi, rari i disturbi alla quiete pubblica. Giorni fa, una madre ha redarguito il figlio, un bambino di quattro o cinque anni che giocava con un’incantevole coetanea — nera come l’ebano, evidentemente adottata dai genitori, due tedeschi che si erano sistemati un po’ più lontano — sparando con una pistola ad acqua e scavalcando di corsa i corpi distesi al sole, per lui non ancora desiderabili o conturbanti. Sgridato, il bambino protestava, dicendo che allora bisognava rimproverare pure la bambina. «Quale bambina?», chiese la madre, che non la vedeva perché si era nascosta dietro un albero. «Quella che parla che non si capisce niente», rispose lui, evidentemente colpito dal fatto che la piccola chiamasse le cose in modo per lui incomprensibile, un po’ arrabbiato di scoprire che esse potessero avere altri nomi.
Non gli era passato per la mente di identificarla con il colore della sua pelle, che pure spiccava nettamente anche accanto all’abbronzatura dei bagnanti; quella differenza di colore, che in altre situazioni aveva provocato e potrebbe ancora provocare separazione e segregazione feroce, era irrilevante rispetto alla differenza tra l’italiano e il tedesco. Neppure quest’ultima, peraltro, aveva il potere di separarli, perché, appena riapparsa la bambina nel frattempo debitamente ammonita (in tedesco) dai suoi genitori, i due avevano ripreso subito a rincorrersi e a spruzzarsi, ignari di aver tenuto una bella lezione sulla diversità e sull’identità, temi del resto cari anche ai convegni cultural-balneari così frequenti sulle spiagge estive, almeno quelle un po’ più eleganti della scogliera di Barcola.
Claudio Magris (ed. online Il Corriere della Sera)Trieste non è solo crocevia tra est e ovest, come recita la sua didascalia, ma pure fra nord e sud, fra la malinconia scandinava di certi tramonti d’inverno e la vitalità meridionale dell’estate. In fondo al golfo, dove le acque italiane divengono slovene e poi croate, si vedono il Duomo di Pirano, la plurisecolare orma del leone di S. Marco nell’Istria, e più avanti Punta Salvore, col suo faro e i suoi pini nel vento. La popolazione che da maggio a ottobre, e soprattutto in agosto, arriva ogni giorno su quella scogliera di Barcola è abitudinaria; per tacita convenzione, ognuno di noi ha il suo posto sulla riva, genericamente rispettato dai vicini, con cui s’intrattengono rapporti garbati ma senza prendersi né dare confidenza. Ogni tanto aleggia, annunciata sui giornali, la minaccia di divieti, piani regolatori, costruzioni di stabilimenti a pagamento o di porticcioli turistici, minaccia finora ogni volta sventata da pugnaci lettere inviate alla stampa e alle autorità dagli uomini di penna, numerosi e assidui fra quei bagnanti, e da proteste che arrivano da triestini residenti da anni a New York o ad Adelaide ma non dimentichi di quella scogliera. Le autorità, a dire il vero, dimostrano di comprendere che quella libertà di «tocio» ossia di tuffo è un bene pubblico, una buona qualità di vita collettiva, e si preoccupano delle docce gratuite e delle tamerici.
Qualche anno fa la scogliera era salita alla ribalta delle cronache grazie a un annegato, il cui corpo riportato a riva e coperto da un lenzuolo era rimasto a lungo in mezzo ai bagnanti che avevano continuato a prendere il sole accanto a lui, in quella familiare indifferenza della vita per la morte che la grande e rovente luce dell’estate rende ancora più spietata. Pochi gli schiamazzi, rari i disturbi alla quiete pubblica. Giorni fa, una madre ha redarguito il figlio, un bambino di quattro o cinque anni che giocava con un’incantevole coetanea — nera come l’ebano, evidentemente adottata dai genitori, due tedeschi che si erano sistemati un po’ più lontano — sparando con una pistola ad acqua e scavalcando di corsa i corpi distesi al sole, per lui non ancora desiderabili o conturbanti. Sgridato, il bambino protestava, dicendo che allora bisognava rimproverare pure la bambina. «Quale bambina?», chiese la madre, che non la vedeva perché si era nascosta dietro un albero. «Quella che parla che non si capisce niente», rispose lui, evidentemente colpito dal fatto che la piccola chiamasse le cose in modo per lui incomprensibile, un po’ arrabbiato di scoprire che esse potessero avere altri nomi.
Non gli era passato per la mente di identificarla con il colore della sua pelle, che pure spiccava nettamente anche accanto all’abbronzatura dei bagnanti; quella differenza di colore, che in altre situazioni aveva provocato e potrebbe ancora provocare separazione e segregazione feroce, era irrilevante rispetto alla differenza tra l’italiano e il tedesco. Neppure quest’ultima, peraltro, aveva il potere di separarli, perché, appena riapparsa la bambina nel frattempo debitamente ammonita (in tedesco) dai suoi genitori, i due avevano ripreso subito a rincorrersi e a spruzzarsi, ignari di aver tenuto una bella lezione sulla diversità e sull’identità, temi del resto cari anche ai convegni cultural-balneari così frequenti sulle spiagge estive, almeno quelle un po’ più eleganti della scogliera di Barcola.
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