INARRESTABILI?
Mentre il sondaggio effettuato da GPG dice che
Una corsa inarrestabile. Un successo clamoroso. Dopo l'exploit del Carroccio alle Europee (10,2%), continua nei sondaggi l'ascesa del movimento di Umberto Bossi. In Padania e anche nelle Regioni centrali. Secondo la rilevazione effettuata da GPG il 16 settembre, in Veneto la Lega è salita al 34,5%, nettamente il primo partito: +6,1% rispetto a giugno e +1,5 sul dato di fine agosto. In Liguria il Senatùr ha raggiunto il 13% (+3,1 e +2). In Emilia Romagna il balzo del Carroccio è sorprendente: 15,5% (+4,4 e +1). In Lombardia i padani sono oramai a un passo dal Popolo della Libertà, arrivando al 28% (+5,3 e +2) contro il 30%. Dati choc anche in Piemonte: sondaggio del 21 settembre, la Lega si attesta al 20,5% con un incremento del 4,8 rispetto alle Europee e del 2% nei confronti del 29 agosto. Ma non finisce qui. In Umbria il Carroccio vola al 5,5% (+1,9), nella Marche all'8,5% (+3) e in Toscana (nella rossa Toscana) al 6,5% (+2,2).
(notizia tratta da http://www.affaritaliani.it/)
ecco cosa scrive oggi il sempre ottimo Massimo Franco ne Il Corriere:
Le primarie ora diventano un problema
C'è sempre il pericolo di sopravvalutare lo psicodramma di un Pd che litiga sulle cosiddette «regole». Eppure, lo scontro di ieri fra il segretario Dario Franceschini ed il probabile successore, Pier Luigi Bersani, dice qualcosa di più. Fa emergere un conflitto sordo fra i «due partiti»: quello degli iscritti e quello delle primarie. Il leader uscente accarezza un «bagno di popolo» per rovesciare o almeno bilanciare l’affermazione di Bersani nei «circoli ». I sostenitori dell’ex ministro, invece, preferirebbero che le primarie si limitassero a consacrare una vittoria data già per avvenuta: quella che evoca il braccio destro di Bersani, Filippo Penati, chiedendo le dimissioni di Franceschini.
La sua uscita è stata corretta dal segretario in pectore e da Massimo D’Alema per placare un segretario furibondo. Ma solo in parte: nel senso che Bersani vuole rivedere il meccanismo delle primarie. L’episodio rivela le tensioni nel Pd; e conferma che di fronte ad un congresso «vero», gli eredi di Prodi e Veltroni rischiano di litigare fino alla rottura. Soprattutto, riemerge l’ambiguità di votazioni «aperte» che funzionavano finché si trattava di consacrare il candidato del centrosinistra a palazzo Chigi. Diventano invece un’incognita quando si tratta di eleggere «solo» il segretario, perché il possibile premier dovrà soddisfare gli alleati.
Il risultato è uno scontro cattivo e insieme apparentemente oscuro; e segnato da una sfiducia reciproca profonda. Di colpo, quelle primarie presentate come la sublimazione della democrazia, vengono guardate come un rito che Franceschini potrebbe manipolare. «Dobbiamo garantire», spiega con candore Rosi Bindi, alleata di Bersani, «che le primarie si svolgano in modo corretto, senza vantaggi precostituiti ». Ad incanaglire la faida contribuiscono, stavolta contro Bersani, anche i risultati delle elezioni di domenica in Germania.
Il fronte interno contrario al candidato sostenuto da Massimo D’Alema sfrutta il disastro della Spd tedesca per bocciare la sua strategia di sinistra; e per rimettere in discussione l’adesione al gruppo socialista a Strasburgo. Il senso dell’offensiva è chiaro: stiamo per eleggere un segretario che ci porterà alla sconfitta perché persegue un’identità ed un progetto vecchi, già bocciati in tutta Europa. Si tratta di un tentativo in extremis di invertire l’affermazione di un Bersani che ha ottenuto circa i due terzi dei «sì» congressuali. Ed in prima linea si presentano personaggi diversi come Walter Veltroni e Francesco Rutelli.
Entrambi sostengono che il Pd si prepara a tornare «un partito socialista classico»; e che pagherà un prezzo politico alto. Contano di certo vecchi e nuovi rancori; ambizioni personali; e le tossine depositate nel gruppo dirigente dal fallimento del governo Prodi e dai risultati prima delle politiche del 2008 e delle europee del luglio scorso. Ma al fondo rimane la sensazione che esistano due Pd, difficilmente conciliabili; e che Bersani rischi di essere visto dai quasi sicuri perdenti del prossimo congresso come leader di «un» partito, quello degli iscritti, e non dell’intero Pd. Anche se bisognerebbe domandarsi perché questa ambiguità di fondo, sempre esistita, rischi di diventare lacerante solo adesso.
La sua uscita è stata corretta dal segretario in pectore e da Massimo D’Alema per placare un segretario furibondo. Ma solo in parte: nel senso che Bersani vuole rivedere il meccanismo delle primarie. L’episodio rivela le tensioni nel Pd; e conferma che di fronte ad un congresso «vero», gli eredi di Prodi e Veltroni rischiano di litigare fino alla rottura. Soprattutto, riemerge l’ambiguità di votazioni «aperte» che funzionavano finché si trattava di consacrare il candidato del centrosinistra a palazzo Chigi. Diventano invece un’incognita quando si tratta di eleggere «solo» il segretario, perché il possibile premier dovrà soddisfare gli alleati.
Il risultato è uno scontro cattivo e insieme apparentemente oscuro; e segnato da una sfiducia reciproca profonda. Di colpo, quelle primarie presentate come la sublimazione della democrazia, vengono guardate come un rito che Franceschini potrebbe manipolare. «Dobbiamo garantire», spiega con candore Rosi Bindi, alleata di Bersani, «che le primarie si svolgano in modo corretto, senza vantaggi precostituiti ». Ad incanaglire la faida contribuiscono, stavolta contro Bersani, anche i risultati delle elezioni di domenica in Germania.
Il fronte interno contrario al candidato sostenuto da Massimo D’Alema sfrutta il disastro della Spd tedesca per bocciare la sua strategia di sinistra; e per rimettere in discussione l’adesione al gruppo socialista a Strasburgo. Il senso dell’offensiva è chiaro: stiamo per eleggere un segretario che ci porterà alla sconfitta perché persegue un’identità ed un progetto vecchi, già bocciati in tutta Europa. Si tratta di un tentativo in extremis di invertire l’affermazione di un Bersani che ha ottenuto circa i due terzi dei «sì» congressuali. Ed in prima linea si presentano personaggi diversi come Walter Veltroni e Francesco Rutelli.
Entrambi sostengono che il Pd si prepara a tornare «un partito socialista classico»; e che pagherà un prezzo politico alto. Contano di certo vecchi e nuovi rancori; ambizioni personali; e le tossine depositate nel gruppo dirigente dal fallimento del governo Prodi e dai risultati prima delle politiche del 2008 e delle europee del luglio scorso. Ma al fondo rimane la sensazione che esistano due Pd, difficilmente conciliabili; e che Bersani rischi di essere visto dai quasi sicuri perdenti del prossimo congresso come leader di «un» partito, quello degli iscritti, e non dell’intero Pd. Anche se bisognerebbe domandarsi perché questa ambiguità di fondo, sempre esistita, rischi di diventare lacerante solo adesso.
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Non c'è che dire: come sappiamo farci male (da soli) noi del centrosinistra...
Che la forza sia con voi!
Etichette: POLITICA
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