SULLA LIBERTA DI STAMPA
Ecco il resoconto stenografico dell'intervento che Sergio Zavoli, ieri, ha tenuto durante la discussione in Senato relativa al disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche. Si tratta di un intervento di altissimo profilo che riguarda uno degli elementi maggiormente caratterizzanti l'essere una democrazia: la libertà di stampa.
Signor Presidente, la questione pregiudiziale QP6 ha per oggetto la libertà di stampa. Ho avuto un abbassamento di voce, ma non un abbassamento della mia volontà di esprimere un parere che esce un po' dal tema regolamentare, perché affronta una questione che credo stia in cima a tutti i nostri discorsi, a quelli odierni e a quelli che faremo. La pregherei di concedere che un paio di decibel in più mi aiutino a farmi capire meglio.
Signor Presidente, ho letto giorni fa sul «Corriere della Sera» un suo articolo che, prendendo le mosse dalla tragica vicenda di Walter Tobagi, affermava come egli avesse esercitato l'opera sua sul piano - forse addirittura più insidioso del diritto e dell'ordine pubblico - della cultura e dell'informazione, attraverso le armi dell'inchiesta e dell'analisi critica. Grazie di queste parole, che le fanno onore! Signor Presidente, vorrei che questo suo condivisibile giudizio fosse d'introito ai lavori che concluderanno una grande e spero non inutile fatica, e che allo spirito delle sue parole l'Aula impronti le nostre prossime sedute. Rinnovo l'invito, per quel che posso, a far sì che prevalga quella ragionevolezza così spesso elusa, perché la ragione politica pretende che si privilegi un altro ragionamento. Basti pensare ai tagli inferti proprio alla cultura, cui si sta tentando di opporre in extremis qualche incerto e pericolante rimedio.
So bene, signor Presidente, che non ci misuriamo con una di quelle congiunture in cui la storia assegna a tale questione un significato drammatico, ma il solo fatto di doverci riferire a un articolo della nostra Carta (parlo ovviamente dell'articolo 21) giustifica il malessere che ha accompagnato sin qui la disputa sulle intercettazioni. Quindi domando, signor Presidente, senza alcun intento polemico, perché, di fronte a un disagio di tale rilevanza (Benedetto Croce la chiamerebbe sofferenza etica), non abbiamo avvertito tutti insieme, maggioranza e minoranza, che questa sorta di spaesamento è in realtà al centro di una grande e grave questione democratica. Eppure siamo in un'Aula dove la libertà di stampa, anche quella che rischiasse la meno inquietante delle lesioni, dovrebbe avere il suo presidio più efficace e vincolante. Qui, per la natura del nostro stesso compito dovremmo essere indotti, nel nome di un bene che ci fa uguali, a volgere i nostri lavori in direzione di salvaguardie che superino, nell'interesse comune, le chiusure pregiudiziali e gli opportunismi politici, strutturali o contingenti che siano. Ciò, perché la libertà di espressione deve tendere alla promozione del confronto pubblico e della responsabilità personale, a tutelare i diritti di ciascuno e di tutti, a contrastare le invadenze dei poteri, a difendere la democrazia dalle intolleranze occulte e dalle aggressioni fin troppo evidenti e perché soltanto un giornalismo disposto a svolgere questo compito è lo strumento garante della politica, mentre in caso contrario può essere solo il suo servo.
C'è chi risolverebbe alla svelta il problema: gli basterebbe ridurre la politica al minimo, opponendole diffidenza e disinteresse e magari rivolgendo qualche anacronistica minaccia normativa a un giornalismo che interpreti - mai che ometta - i suoi doveri deontologici. Non posso dimenticare, signor Presidente, Albert Schweitzer che, nel suo celebre lebbrosario di Lambaréné, mi disse: «Fino a quando non diremo cose che a qualcuno dispiaceranno non diremo mai per intero la verità». Del resto, ricorderete come Orwell immaginasse un Ministero della verità il quale avrebbe provveduto a cancellare quotidianamente i fatti scomodi, distruggendo i segni che essi lasciano. La cupa profezia si è posta da allora come un'epigrafe in testa al nostro modo di intendere l'informazione, la sua natura e il suo scopo in una società liberale e riformista, per ricordarci che la democrazia va difesa ogni giorno.
Forse, per comprendere che cosa è realmente in gioco vale la pena di ricordare anche quanto ha detto Hans Magnus Enzensberger: «Ai giornalisti di oggi spetta non il dovere, ma certamente il compito di fare chiarezza su tutto quanto, per loro merito o demerito, ci coinvolge»; vorrei inoltre aggiungervi il giudizio di Amartya Sen, premio Nobel per l'economia, che ha avuto l'ardire, oltre che l'umiltà, di considerare l'informazione oggi più importante persino dell'economia: un azzardo - direte - ma non privo di qualche fondamento.
Giorni fa in un giornale ho scritto a proposito del cartello appeso al collo di un partecipante al sit in davanti a Montecitorio in cui si leggeva "Io non ho paura, intercettatemi": come a dire che questo disegno di legge favorisce chi ha colpe o reati da nascondere. Era una posizione di rifiuto totale, estrema, e quindi a sua volta contestabile. Basta infatti approfondire il problema, in cui si affrontano due diritti fondamentali (l'informazione dovuta da una stampa libera e quella che viola gratuitamente la riservatezza personale) per rendersi conto della profonda differenza, in questa delicata materia, tra chi è investito di responsabilità pubbliche, sia elettive che conferite dallo Stato, e un semplice cittadino.
Tuttavia, anziché tentare una equilibrata composizione, difficile ma necessaria, si è scelta la strada, a prima vista più facile, di restringere al massimo le intercettazioni, di ricorrere alla minaccia del carcere per i giornalisti (poi ragionevolmente lasciata cadere), infliggendo multe pesantissime, anche se poi ridotte per le piccole testate, a carico degli editori, aprendo la strada all'intervento della proprietà sul contenuto dei giornali che, come sappiamo, è competenza esclusiva del direttore.
Una serie di errori non da poco, ancora passibili di correzione, conferisce qua e là un carattere repressivo e illiberale a questo progetto, e lo sarebbe ancora di più se la pratica delle intercettazioni dovesse limitare l'azione legittima e indispensabile della magistratura, per esempio - cito il caso più vicino e irrisolto - quando la comunità nazionale si sente offesa dalla cosiddetta cricca (una parola d'uso comune per indicare un clima ben più che equivoco). Qui la materia affronta aspetti controversi di legittimità che affido a chi ha dottrina per farlo; ma sono persuaso signor Presidente, che in un Paese in cui dopo 21 anni si vanno a cercare le impronte lasciate dagli attentatori di Giovanni Falcone sugli scogli dell'Addaura e dove, rovistando tra vecchie collezione di giornali, si trova la fotografia di un agente segreto sempre presente quando è alle viste o in preparazione o addirittura in atto un'azione eversiva gravemente criminosa, la funzione della stampa si riveli fondamentale. Perciò, lungi dal restringerne le facoltà, va ricercata e perseguita la sequela di reticenze, ambiguità e fellonie, se non si vuole coprire una manifesta e impunita lesione della nostra stessa legittimità democratica.
Mi limito a citare le parole di un nostro collega della passata legislatura, l'autorevole ed equanime Andrea Manzella: il messaggio complessivo è che la lotta al crimine in Italia, terra di molte mafie e di molte complicità, sarà indebolita. Ribassi di pene per non reati, cioè per la libertà giornalistica di informare su atti non più segreti, non servono a cancellare il nonsenso strutturale dell'intero progetto, per il quale, signor Presidente, vanno auspicate ulteriori correzioni, secondo le puntuali riserve avanzate dal Capo dello Stato.
Parlo di cose da tutti voi conosciute, dolendomi della sommarietà cui ho dovuto tenermi, ma il Senato, il luogo della nostra risposta a una delega popolare fondata sul valore e sulle modalità della trasparenza politica, civile e morale, non può non disporsi a compiere un dovere di inestimabile significato.
E perché nessuno si senta escluso dalla vitale necessità di salvaguardare il dettato costituzionale, lasciatemi ricordare la parola più alta, data a tutti perché venga pronunciata per tutti. Una parola che vive dentro e fuori di noi, quand'anche non ci si accorga della sua presenza. Una parola che è come l'aria, la quale ci tiene in vita, si può dire, quasi a nostra insaputa, chiunque si sia e dovunque si stia. È una parola che va detta e udita in nome delle responsabilità che essa esige. Quella parola è così solenne che si stenta a ripeterla senza qualche imbarazzo, ma libertà - cui tutti dobbiamo continuamente richiamarci - è la prima a dar vita alle nostre speranze di non venire sconfitti dalle nostre stesse sordità, o peggio dalla nostra rassegnazione.
Pronunciamola, dunque, dandole un fondamento comune: è la sola che nessuno può pronunciare solo per se stesso, ed è di quelle che, signor Presidente, in quest'Aula devono avere la precedenza. (Vivi, prolungati applausi dai Gruppi PD, IdV, UDC-SVP-Aut: UV-MAIE-IS-MRE e dei senatori Menardi e Musso.Molte congratulazioni).
Che la forza sia con voi!
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