SARDE IN SAOR
Amo moltissimo il pesce. Amo mangiarlo ma anche cucinarlo benché abbia un fratello che, in cucina, è molto più bravo di me. L'altra sera ho mangiato uno dei miei piatti preferiti, le sarde (a me piace chiamarle sardee perché il vero saor prevede l'impiego delle sardine piccole non grandi) in saor. Adoro questo piatto semplice, povero (benché in un noto ristorante di Venezia l'ho trovato "quotato" a 28 euro!). Gli amanti delle sarde in saor si dividono in due fazioni, l'una all'altra opposta e ciascuna delle due disposta a far rivoluzione per affermare il proprio dogma. Che ruota attorno ad una precisa domanda: le vere sarde in saor devono avere o meno pinoli e uvetta? Io, per me, sono convinto che no, le vere sarde in saor contemplano il rigoroso utilizzo di cipolla (in proporzione di 2 a 1; vale a dire il doppio di cipolla rispetto alla quantità di sardine) e aceto. Punto e basta. Perché è piatto della tradizione. E' piatto da pescatori e non mi ci vedo i pescatori di San Nicolò dei Mendicoli andar per calli in cerca di uvetta e pinoli. Ho più volte discusso (per un piatto di sarde in saor si possono accendere liti furibonde) con un mio amico, chef in molti e importanti ristoranti, il quale è fieramente schierato pro uvetta/pinoli sostenendo che l'uvetta servirebbe a "bloccar in gola l'odor della cipolla". Ma non riesce mai a convincermi benché, c'est vrai, a me piacciono anche queste. Su una cosa non transigo: guai (guai!!!) a sostituire l'aceto col vino bianco come taluni chef ipotizzano. E mangiarle rigorosamente almeno 24 ore dopo (ma c'è chi dice almeno 5 giorni) averle preparate. Una lezione alternativa afferma che l'uso di uvetta e pinoli era previsto solo in inverno per aumentare l'apporto calorico di questo piatto. Ma a me questa interpretazione non convince.
Ieri sera, a cena, ho assaggiato un vino di cui non avevo mai sentito parlare (per mia ignoranza): il Franconia. Si tratta di un vitigno friulano non autoctono (viene dalla vicina Austria) che produce un vino d.o.c. robusto, corposo, con un retrogusto vagamente amarognolo. Perfetto con la carne ed i formaggi specie se accompagnati da qualche mostarda dolce in modo da esaltarne le caratteristiche.
Badate bene: noi siamo gente di campagna ma non siamo "veneziani di periferia". Tutt'altro. La recentissima campagna di scavo archeologico che l'Università Cà Foscari di Venezia ha condotto, con l'appoggio dell'Assessorato alla Cultura, nei pressi dell'Abbazia Benedettina di Sant'Ilario ci ha disvelato come la storia della Serenissima Repubblica abbia un nucleo di straordinaria importanza proprio nella piana tra Malcontenta e Dogaletto. Quando i nobili veneziani volean migrar d'aria come scrive il Goldoni (che da dignità di letteratura proprio alle sarde in saor nella sua Le done de casa soa) se ne venivano proprio qui, nella nostra straordinaria Riviera del Brenta. E però, nei secoli, spesso per noi, gente di campagna, Venezia è stata più matrigna che madre. Con il suo seguito, in questo rapporto, di tentativi "rivoluzionari" finiti nel nulla. Su questo tema, da tempo, sta lavorando il professor Giuseppe Fort, mirese d'adozione, già insegnante (di Liceo e di Università), giornalista, saggista che proprio in questi giorni dà alla stampa il suo Storia veneziana del '300 - Utopie edito da Helvetia Editrice con la prefazione di Gianfranco Bettin. E' la storia di una rivoluzione, di una specie di "colpo di stato" che - nella notte del 15 giugno 1310 - fu tentata da Baiamonte Tiepolo e Marco Querini. E' un libro davvero interessante, avvincente che vi consiglio caldamente di leggere.
Che la forza sia con voi!
Etichette: CULTURA
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