giovedì 2 dicembre 2010

COMMENTO

Da Europa (edizione di mercoledì)

Il Pd che non capisco più

Il 14 dicembre, giorno dell’atteso voto sulla mozione di sfiducia al governo, non sarà il crinale apocalittico della storia. Tuttavia, esso rappresenta uno spartiacque di qualche rilievo per il seguito (o l’interruzione) della legislatura, per l’evoluzione del sistema politico e dunque anche per il Pd. Buon senso suggerirebbe ai suoi dirigenti di attendere quel passaggio, non indifferente ai fini degli sviluppi a seguire. E dunque di sospendere le pur legittime dispute interne al Pd circa le sue prospettive strategiche così da gestire unitariamente l’attuale situazione. In modo da riaprire poi la discussione disponendo di due elementi al momento sommamente incerti: la fiducia o la sfiducia al governo Berlusconi e la continuità o meno della legislatura.

Elementi niente affatto indifferenti dal punto di vista sistemico, cioè con riguardo all’evoluzione complessiva della democrazia italiana, della destra, del centro, della sinistra.

Tuttavia, a rischio di contraddirmi, e cioè di cedere anch’io alla tentazione di proiettarmi intempestivamente sulla sorte del Pd nel mediolungo periodo, sento l’esigenza di capire (mi contenterei di capire...) le posizioni interne al partito.

Non è un’impresa facile. Qualcuno parla di Babele. Provo a esemplificare. Non ho ben compreso Nicola Latorre. Non ho capito perché porre oggi il problema addirittura di una “rifondazione” di un Pd che ricomprenda Vendola e che rimetta in discussione le primarie di coalizione. Tesi audace e comunque, ripeto, fuori tempo. Ma ancor meno ho capito perché taluni veltroniani si siano stracciati le vesti. Chi stressa la visione del cosiddetto partito a vocazione maggioritaria non dovrebbe contrastare – in via di principio e a tempo debito – un processo teso all’allargamento del Pd a forze che hanno fatto una esplicita scelta di campo di centrosinistra e che, partecipando alle primarie, potrebbero muovere verso un partito coalizionale con cultura di governo (è il caso di Vendola).

Un Pd dai confini più larghi e non per questo snaturato. Non capisco la logica di chi predica un bipolarismo al limite del bipartitismo e poi si oppone a processi di progressiva integrazione tra forze del medesimo campo. Lo capisco di più dal punto di vista di Fioroni & company, che pongono discriminanti a sinistra del Pd. Il quale Fioroni, con il suo moderatismo centrista (di nuovo: non capisco che c’entrino i cattolici), oscilla poi a sua volta tra la propensione all’alleanza pressoché esclusiva con i centristi dell’Udc e la preoccupazione di consegnare ad essi la rappresentanza di quell’elettorato cui egli asserisce di dare voce dentro il Pd. La faccio breve: se Fioroni vuole un Pd su posizioni più centriste e meno di sinistra alleato con la sola Udc egli mette nel conto la dilatazione di uno spazio politico alla sinistra del Pd e dunque oggettivamente opera contro il dogma veltroniano del bipolarismo; se Veltroni propugna un partito a vocazione maggioritaria deve vedere di buon occhio processi di aggregazione progressiva a destra ma anche a sinistra del Pd.

Gli uni e gli altri dovrebbero mettersi d’accordo. A meno che la loro innaturale alleanza avesse una sola spiegazione: fare fronte comune contro la segreteria del Pd, pur coltivando opposte strategie. Da più di un segnale, in verità, si ha l’impressione che l’approdo sia un altro: la convergenza di Veltroni sul moderatismo centrista di Fioroni. Un esito avvalorato dalle posizioni di merito programmatico dei veltroniani sempre più inclini a tradurre il tanto declamato riformismo, corredato della parola magica “innovazione”, nelle posizioni del centrismo moderato. Un proposito niente affatto ambizioso, ma, al contrario, a dispetto dello slogan “cambiare e non difendere”, rinunciatario rispetto al proposito di “riformare” i rapporti sociali nel senso di un di più di uguaglianza. Perché riformismo dovrebbe essere anche questo: l’impegno a cambiare l’assetto dei rapporti sociali, la distribuzione del potere e delle risorse a beneficio di chi è più svantaggiato. Salvo che, in un’ossessione revisionista che si spinge fino alla subalternità culturale alla destra, della sinistra si intenda ripudiare non solo i mezzi datati ma anche il fine e cioè la tensione all’uguaglianza. A mio avviso, starebbe semmai in questa subalternità e in questa rinuncia lo snaturamento del Pd. Ma anche dentro la maggioranza congressuale, a tempo debito, sarà utile fare chiarezza. Penso a chi, come D’Alema e Letta, tutto, troppo scommettono su un asse privilegiato con l’Udc, la quale ci ha spiegato in mille modi che il suo orizzonte strategico è altro e diverso dal nostro (con o senza Vendola e Di Pietro), che essa mira a un centrodestra “normale” e comunque in competizione con noi nel dopo Berlusconi e che, diciamo la verità, ha dato a intendere di essere pronta ad entrare da subito in un nuovo governo anche a guida del Cavaliere. Forse Casini lo avrebbe già fatto se non fosse intervenuta l’opposizione della Lega.

Ecco perché mi confermo nella convinzione che noi dobbiamo applicarci al nostro cantiere, ad organizzare il campo del centrosinistra, a tenere la barra ferma e mirata a una limpida alternativa ideale e politica al centrodestra di oggi e di domani. La rotta futura, che tuttavia ci deve guidare sin d’ora, è ancora quella tracciata da Bersani solo un paio di mesi fa: nuovo Ulivo con le forze che facciano una chiara scelta di campo di centrosinistra (un progetto impegnativo e di lunga lena, che esige autocorrezioni e disciplina da parte di ciascun partner), l’offerta alle formazioni di centro di un patto e di un programma di governo per la prossima legislatura (dobbiamo avanzare la proposta, ancorchè, allo stato, esse si mostrino restie) e infine, come soluzione estrema a una deriva estrema in caso di elezioni ove la posta in gioco fosse la rottura costituzionale con il corollario di Berlusconi al Quirinale, un’alleanza democratica la più larga per sconfiggere il populismo di Berlusconi e Bossi, riscrivere le regole della competizione politica, per poi – battuta la coppia B&B –, dopo una legislatura di transizione, tornare a dividersi lungo l’asse destra-sinistra in condizioni di sicurezza democratica.

Al momento non mi pare che, per il Pd, altre strategie siano praticabili. Se vi sono, vorrei che fossero esibite, ma appunto di visioni e di strategie dovrebbe trattarsi, non di confuse mosse tattiche o di giochi di posizionamento interno.

Franco Monaco













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