mercoledì 16 luglio 2008

EROI MODERNI







Karl Unterkircher non è (continuo a parlarne al presente anche se purtroppo le notizie che stanno arrivando in queste ore non inducono all'ottimismo) un alpinista qualsiasi. L'ho sempre ritenuto uno dei più grandi alpinisti al mondo, superiore forse (e qui qualcuno mi accuserà di bestemmiare) allo stesso Messner. Aveva un sogno, Karl: aprire una nuova via alpinistica sulla parete Rakhiot (nella foto a destra) del Nanga Parbat (8125 metri) in Pakistan, la stessa vetta dove - nel 1970 - morì Gunther Messner, fratello di Reinhold. Sapevo che Karl era di Selva Val Gardena e quando avevo l'occasione di passare per questo ridente paese, lo cercavo fra i suoi compaesani. Una volta lo vidi mentre passeggiava per le vie del centro cittadino. Mi avvicinai per chiedergli un autografo. Non sono abituato a chiedere autografi (qualche dedica da parte di autori di libri che amo, questo sì..). Anche perché di mio sono particolarmente timido. Un'altra persona cui lo chiesi fu Paolo Frajese che vidi, un giorno di fine luglio del '94, poco oltre il Rifugio Sennes, sopra il lago di Braies (ma al solito, se avete bimbi piccoli vi consiglio di arrivarci da Malga Ra Stua: percorso molto più facile). E ricordo che quando seppe che anche io ero un "collega" (si fa per dire), mi invitò a sedere accanto a lui e parlammo per quasi un'ora di quel mestiere che così tanto mi appassionava. Ma già allora, per me, Karl era un mito. Come altro definire un uomo (ha 38 anni) che nel 2004, in una sola stagione, ascende sull'Everest e sul K2? Ricordo mi fissò, dritto negli occhi, intimidito come lo sono i montanari, gente abituata alla fatica, alla sofferenza, al dolore e non agli applausi, alle starlette, alle vacanza in Costa Smeralda. Fui colpito da quello sguardo. Non era uno sguardo triste. No. Era lo sguardo di un uomo che pure così giovane può dirsi fortunato (ed io invidio chi può definirsi così) perché era riuscito a guardare oltre i propri limiti, oltre i propri abissi e le proprie paure. Rinunciai a chiederglielo, limitandomi a stringergli la mano. Nel suo sito, il 13 luglio (dunque tre giorni fa e due prima di cadere in quel maledetto crepaccio) scrive:
Qualche giorno prima di partire per questa spedizione, uscendo da un bar, sono inciampato in un vaso di fiori che faceva da bordo sulla strada statale. Mi sono rovesciato, avevo ai piedi solo i sandali e così ho sbattuto il ginocchio sull’asfalto, procurandomi un dolore allucinante. Mi sono rialzato ed ho continuato a camminare, zoppicavo dal dolore, però sentivo che il ginocchio era rimasto illeso. Probabilmente se passava una macchina in quell’istante, mi avrebbe sicuramente investito. Il barista, un mio caro amico, uscì di corsa chiedendomi se mi fossi fatto male, non avevo più fiato per parlare. Probabilmente avrà pensato: “vuole andare a fare i 8000 metri e non sta neanche in piedi a 1500 metri”. Il destino ha voluto che mi succedesse niente ed è per questo che sono adesso qui, qui sotto la parete Rakhiot. Fin’ora tutto è andato come da programma, mica ci tireremo indietro adesso? Domani al mattino saliamo alla morena, lo zaino sarà abbastanza pesantello, in più abbiamo gli sci da portare. Aspetteremo fino a quando sarà buio, perché di giorno fa troppo caldo. Se non è nuvolo, la luna sarà dalla nostra parte. Il seracco intermedio deve fare il “bravo” da 8 a 10 ore, non chiediamo poi tanto?! Sfrutteremo una costola nevosa fino sotto la fascia di rocce. Essa non dovrebbe creare problemi. Se poi nella giornata di martedì riusciamo a saltare sopra al “nostro” seracco intermedio allora saremo a cavallo del pilastro! Dopodiché toccherà a noi! A resistere alla fatica e a superare la parete con maestria. Una volta che avremo raggiunto il pianoro sommatale, punteremo la vetta. Abbiamo viveri e gas per sciogliere neve per almeno 5 giorni.…speriamo in bene! La discesa è prevista per la via di Hermann Buhl del ’53. Il nostro staff al campo base ci consiglia invece di scendere dalla via “normale”, per la parete Diamir. Chissà: “forse” gli ho detto, tutto dipenderà da tanti fattori. Inshallah!! ( Come Dio vorrà )
E poco prima, quasi come un oscuro presagio (e chi va in montagna è abituato ad ascoltarli i presagi..):

Ben 9 chilometri di placconata separano la vetta del Ganalo Peak ad ovest dalla vetta di Rakhiot ad est. Però sono le scariche di ghiaccio che mi procurano paura.
Sono appesi dappertutto su questa montagna, sicuramente già da secoli fanno tremare tutta la valle ed inducono la gente del paese ad avere rispetto e sacralità. Dal basso mi è parsa una montagna ostica, tanto da lasciarmi perplesso e scettico per tutto il periodo che siamo qui.
Io non credo che Karl sia morto. Non lo credo e so che è così. Perché Karl è un uomo con un sogno grande come il proprio cuore. Ed ogni uomo che ha un sogno grande è un eroe. E a me hanno insegnato che gli eroi non muoiono. Mai!
Che la forza sia con voi


Etichette:

0 Commenti:

Posta un commento

Iscriviti a Commenti sul post [Atom]

<< Home page