sabato 11 ottobre 2008

LA FINE O L'INIZIO?








Il titolo di apertura dell'edizione di giovedi di Liberazione è incredibilmente straordinario. In effetti: vien facile pensare che la possibile sospensione dei mercati borsistici mondiali (annunciata, oggi, dal Presidente del Consiglio) segni la fine irreparabile di un sistema economico fondato sui capitali, sulla finanza creativa. E che dunque in un futuro, ancora lontano, si possa tornare a concetti - chiave che abbiamo dimenticato: domanda, offerta, valore di produzione. Ma che, soprattutto, si possa capire che le macro dimensioni dell' economia globale anziché rappresentare una forza ne segnino irrimediabilmente una debolezza strutturale. Forse, alla fine, siamo stati sconfitti dalla logica dei soldi facili, della speculazione. Dell'idea che questo mondo sia un gigantesco gioco d'azzardo che alla fine ti fa vincere comunque, basta avere il coraggio di puntare. Ed invece questo mondo è stato rovesciato. In poco, pochissimo tempo. E con esso sono state rovesciate tutte le nostre certezze. Come quella, ad esempio, che gli Stati Uniti fossero la patria del liberalismo. Ed invece, nel giro di un week end, li abbiamo ri-scoperti statalisti e nazionalisti. E che il sistema bancario, anche quello nostrano, ad una crisi di enorme portata come quella attuale, reagisce richiudendosi a riccio. Pensavamo che il sistema creditizio dovesse funzionare proprio nei momenti di maggiore difficoltà ed invece le banche che ti fanno? Il primo provvedimento che assumono è quello di stringere i cordoni della borsa mettendo ancora più in crisi le imprese. Le quali paiono sempre più lasciate in balia di sè stesse, senza alcuna tutela nemmeno nei confronti dei loro debitori insolventi. E allora si riscoprono cose di cui da tempo non avevamo più sentito parlare, come i BOT con cui, negli anni '90, lo Stato finanziava sè stesso e che in tanti accusavano di essere la fonte primaria del gigantesco indebitamento pubblico.
Ho sempre chiarito che io, di economia, capisco poco. E però ho la sensazione che, davvero, alla fine di questa crisi il capitalismo (almeno quello che conosciamo noi) non sarà più lo stesso. E che occorrerà ripensare lo sviluppo economico in termini assolutamente nuovi. Oggi ne Il Corriere , Bernard - Henri Levy scrive:
Certo, siamo sull'orlo del baratro. Questa crisi finanziaria è senza precedenti. Gli Stati Uniti entreranno in una fase nuova della propria storia, dove nulla sarà più come prima: né il modo di regolazione dei mercati; né il modello consumistico che era al centro dell'etica capitalista.
E non sarà più come prima nemmeno il famoso «American dream», al cui proposito pochi sanno, in Europa, che la realizzazione più clamorosa era l'acquisto di una casa, con o senza subprime. Certo, i primi a beneficiare di questa rovina sono tutti i fanatici, talebani o altri, consapevoli che i 700 miliardi di dollari che serviranno a riacquistare alle banche i loro prodotti tossici equivalgono, più o meno, al costo della grande operazione antiterroristica che si sarebbe potuta compiere in Afghanistan o nelle zone tribali pachistane e alla quale l'America impoverita sarà costretta a rinunciare. Senza parlare dell'incertezza che, cosa perlomeno inquietante, nessun responsabile politico è capace di eliminare in maniera chiara: i famosi 700 miliardi, per esempio, corrisponderanno al riacquisto di crediti o a una partecipazione azionaria nel capitale delle istituzioni vacillanti (il che non è la stessa cosa e farebbe dello Stato federale un autentico «Stato azionista» seguendo il modello svedese o finlandese)? O saranno finanziati da prestiti? Se sì, sottoscritti da chi? Siamo così sicuri che il contratto di fiducia che regge i rapporti degli Stati Uniti con il resto del mondo resti sufficientemente solido perché i fondi sovrani indiani, cinesi o del Qatar si precipitino su un nuovo titolo che avrà come inconveniente, fra l'altro, di svalutare quello che già detengono?
Insomma, per queste ragioni e altre ancora, è giusto dire che viviamo un evento colossale, forse inaugurale, di cui siamo lungi dal vedere tutte le conseguenze: l'inizio di una nuova era; una sorta di anno zero del capitalismo nuovo; l'equivalente, per il capitalismo, fatte le debite proporzioni, di quello che fu per il comunismo il crollo del Muro di Berlino. Resta il fatto che l'evento ha avuto anche un altro aspetto, sul quale trovo sia un peccato che i commentatori, europei in particolare, non insistano
maggiormente. La rapidità di reazione, prima di tutto, che la cacofonia di queste ultime ore non smentisce. Il pragmatismo, cioè il coraggio di alti funzionari che, come il segretario al Tesoro Harry Paulson jr., per tutta la vita hanno creduto al capitalismo deregolato, l'hanno considerato vangelo e, in una notte, si sono convertiti ai principi dell'economia diretta dallo Stato.
Il vigore del dibattito democratico che è seguito, che ha visto senatori e congressmen rifiutare di lasciarsi ingannare e, ancor meno, di cedere al panico o al ricatto e imporre al potere esecutivo un certo numero di emendamenti la cui lista sembra non sia chiusa: uno scaglionamento del versamento dei 700 miliardi secondo un calendario debitamente controllato dalle Camere; un codicillo che dà al popolo sovrano un potere di controllo sulla remunerazione di dirigenti che hanno portato le loro imprese al naufragio e che, d'ora in poi, non hanno altri diritti se non quello di raddrizzare il timone; misure aggiuntive in favore dei nuovi senza tetto espulsi dalle proprie case o dei piccoli imprenditori strangolati dal rarefarsi del credito. Per quanto riguarda la storia dei fondi sovrani, in particolare di quelli cinesi, ci sono due possibili interpretazioni: la caduta finale di un «impero» riacquistato come rottame dall'incarnazione stessa di quello che lo nega; oppure un'astuzia della Storia che consente di legare come mai prima il dispotismo asiatico cinese al suo grande avversario storico e, così, di stroncarlo. Ciascuno è libero di scegliere e scommettere.
È Schumpeter che parlava delle turbolenze, anche drammatiche, che scandiscono la storia del capitalismo come di fasi di «distruzione creatrice». Ed è John Galbraith che caratterizzava il capitalismo stesso come una strana macchina che trova la propria energia nella crisi, sia nella depressione o la disfatta, sia nel successo. Le crisi stanno al capitalismo come gli scandali alla democrazia. Secondo alcuni, questi scandali sono la prova che la democrazia non funziona più, mentre secondo altri il fatto stesso che scoppino dimostra la sua incoercibile vitalità. Ebbene, lo stesso vale per la crisi attuale: una probabile cura dimagrante planetaria, una messa in dubbio generalizzata dopo tempi di esuberanza folle e la dimostrazione che il sistema, checché se ne dica, è sempre vitale.

Per il resto che dire? Mira la notte che il domani sarà migliore! Speriamo...
Che la forza sia con voi!

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