LETTURE
Da Il Corriere della Sera
Il libro del sociologo: «l'inganno e la paura»
Il mondo odierno è più sicuro I dati smentiscono la catastrofe prevista
Pino Arlacchi contro «la fabbrica della menzogna» che contribuisce a gonfiare i fatturati militari
Ci sono studiosi che ripetono in televisione le tesi che li hanno resi famosi e ci sono studiosi che continuano a studiare. Pino Arlacchi è uno di questi. E si vede. Dieci anni di ricerche e analisi su conflitti, terrorismo e crisi mondiali di vario genere colpiscono nel segno. L'autore de L'inganno e la paura (Il Saggiatore) smaschera «il mito del caos globale», ovvero la sequela di previsioni funeste, scontri di civiltà, minacce planetarie, domande di sicurezza e bisogni di difesa (militare o poliziesca) che tormentano la nostra epoca, caricando l'individuo di angosce immotivate ed eccessive. Sociologo, ex deputato, vice segretario dell'Onu dal 1997 al 2002, Arlacchi non commette l'ingenuità di contestare i profeti di sventura con rassicuranti elogi del pacifismo o della tolleranza.
Al contrario, utilizza l'arma incontestabile dei numeri: cifre, statistiche, grafici di medio e lungo periodo, per dimostrare che il nostro mondo (così come le nostre città e la nostra vita quotidiana) è più sicuro, più pacifico, più democratico di quanto non fosse mezzo secolo fa e lo è ancora di più a partire dalla caduta del Muro di Berlino. Ci sono dati che dovrebbero rassicurare, anziché spaventare, soprattutto se si considera il progresso dell'umanità anche in termini di salute, speranza di vita, ricchezza prodotta. Le vittime di guerre e il numero dei conflitti sono costantemente diminuiti. Lo stesso si può affermare — in particolare in Occidente — a proposito di criminalità comune e terrorismo. Gli organismi internazionali, nonostante falle e debolezze, assicurano maggiore stabilità e soluzioni negoziate. Il numero di sistemi democratici è in costante aumento. I flussi migratori hanno prodotto più benefici che problemi. Qualche esempio dovrebbe far riflettere. Il numero delle vittime civili americane per fatti di terrorismo, se si esclude il 2001 (l'anno dell'11 settembre) è di 187 fra il 1991 e il 2007. L'81 per cento di attentati terroristici fra il 2005 e il 2007 è avvenuto nell'area Medio Oriente-Golfo Persico, mentre la percentuale in Europa e nelle Americhe non supera l'1 per cento. Nel 1946 c'erano soltanto venti democrazie, nel 2007 sono novantaquattro e soltanto otto Stati possono essere considerati dittature assolute. Negli ultimi quindici anni, le vittorie militari hanno risolto il 7,5 per cento dei conflitti, mentre il 92 per cento sono stati risolti attraverso il negoziato. La freddezza delle cifre non rende giustizia alla realtà e — almeno finora — rischia di essere perdente rispetto all'abbondante letteratura del rischio, al «grande inganno» di quanto si legge ogni giorno sui giornali o si sente sulla bocca di politici, strateghi e più o meno accreditati «guru» del disastro globale. Ed è questo «grande inganno» che contribuisce a far lievitare le spese militari, a rendere insicuro il cittadino e — come si è visto negli ultimi anni — ad accreditare le tesi della guerra giusta o inevitabile, dal Kosovo all'Iraq. O peggio ancora a moltiplicare la pubblicistica dei nuovi pericoli — militari o politici — genere «minaccia cinese», l'«orso postsovietico», «ondate migratorie» eccetera, con l'intento di alzare nuove barriere militari, culturali, economiche. Sul medio e lungo periodo — insiste Arlacchi — si assiste al contrario a una «trasformazione epocale della convivenza collettiva » e a un «regresso fondamentale dell'uso della forza» nei rapporti fra individui e Stati. «Neppure l'invenzione delle armi nucleari — aggiunge l'autore — è riuscita a interrompere il trend di base».
Se i dati sono indiscutibili e potrebbero offrire al lettore abbondante (e rassicurante) materiale di riflessione, resta da comprendere attraverso quali meccanismi e in forza di quali interessi la percezione dell'opinione pubblica sia di segno opposto. La risposta di Arlacchi è naturalmente un po' meno scientifica. Cifre e tendenze vengono negate e stravolte da una «fabbrica della menzogna» che ha contribuito a giustificare «fatturati stellari» delle spese militari e a mortificare le possibilità decisionali dei cittadini. Senza un «cattivo di turno» sarebbe più facile credere a un mondo migliore. Ma le buone notizie, molto spesso, disturbano più delle cattive.
Al contrario, utilizza l'arma incontestabile dei numeri: cifre, statistiche, grafici di medio e lungo periodo, per dimostrare che il nostro mondo (così come le nostre città e la nostra vita quotidiana) è più sicuro, più pacifico, più democratico di quanto non fosse mezzo secolo fa e lo è ancora di più a partire dalla caduta del Muro di Berlino. Ci sono dati che dovrebbero rassicurare, anziché spaventare, soprattutto se si considera il progresso dell'umanità anche in termini di salute, speranza di vita, ricchezza prodotta. Le vittime di guerre e il numero dei conflitti sono costantemente diminuiti. Lo stesso si può affermare — in particolare in Occidente — a proposito di criminalità comune e terrorismo. Gli organismi internazionali, nonostante falle e debolezze, assicurano maggiore stabilità e soluzioni negoziate. Il numero di sistemi democratici è in costante aumento. I flussi migratori hanno prodotto più benefici che problemi. Qualche esempio dovrebbe far riflettere. Il numero delle vittime civili americane per fatti di terrorismo, se si esclude il 2001 (l'anno dell'11 settembre) è di 187 fra il 1991 e il 2007. L'81 per cento di attentati terroristici fra il 2005 e il 2007 è avvenuto nell'area Medio Oriente-Golfo Persico, mentre la percentuale in Europa e nelle Americhe non supera l'1 per cento. Nel 1946 c'erano soltanto venti democrazie, nel 2007 sono novantaquattro e soltanto otto Stati possono essere considerati dittature assolute. Negli ultimi quindici anni, le vittorie militari hanno risolto il 7,5 per cento dei conflitti, mentre il 92 per cento sono stati risolti attraverso il negoziato. La freddezza delle cifre non rende giustizia alla realtà e — almeno finora — rischia di essere perdente rispetto all'abbondante letteratura del rischio, al «grande inganno» di quanto si legge ogni giorno sui giornali o si sente sulla bocca di politici, strateghi e più o meno accreditati «guru» del disastro globale. Ed è questo «grande inganno» che contribuisce a far lievitare le spese militari, a rendere insicuro il cittadino e — come si è visto negli ultimi anni — ad accreditare le tesi della guerra giusta o inevitabile, dal Kosovo all'Iraq. O peggio ancora a moltiplicare la pubblicistica dei nuovi pericoli — militari o politici — genere «minaccia cinese», l'«orso postsovietico», «ondate migratorie» eccetera, con l'intento di alzare nuove barriere militari, culturali, economiche. Sul medio e lungo periodo — insiste Arlacchi — si assiste al contrario a una «trasformazione epocale della convivenza collettiva » e a un «regresso fondamentale dell'uso della forza» nei rapporti fra individui e Stati. «Neppure l'invenzione delle armi nucleari — aggiunge l'autore — è riuscita a interrompere il trend di base».
Se i dati sono indiscutibili e potrebbero offrire al lettore abbondante (e rassicurante) materiale di riflessione, resta da comprendere attraverso quali meccanismi e in forza di quali interessi la percezione dell'opinione pubblica sia di segno opposto. La risposta di Arlacchi è naturalmente un po' meno scientifica. Cifre e tendenze vengono negate e stravolte da una «fabbrica della menzogna» che ha contribuito a giustificare «fatturati stellari» delle spese militari e a mortificare le possibilità decisionali dei cittadini. Senza un «cattivo di turno» sarebbe più facile credere a un mondo migliore. Ma le buone notizie, molto spesso, disturbano più delle cattive.
Massimo Nava
Che la forza sia con voi !!!!!!
Etichette: CULTURA
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