lunedì 20 giugno 2011

DURO? NO: MOSCIO (E MOLTO)

Ieri ho ascoltato tutto l'intervento che Umberto Bossi ha pronunciato dal palco di Pontida. Non che avessi 'speranze' di qualche tipo ma per rompere con Berlusconi ci vuole un coraggio che "il Capo" (come lo hanno chiamato i ministri Calderoli e Maroni) non ha avuto. Ieri pomeriggio Umberto Bossi ha ripetuto ciò che sostanzialmente va dicendo da alcune settimane (e la sorpresa annunciata? Non si è vista): gli errori sono (quasi) tutti di Berlusconi; la Lega vuole essere al fianco della "gente"; ovviamente i giornalisti sono tutti degli imbecilli quando parlano di una "Lega rotta" (benché molti fossero i cartelli che auspicavano Maroni presidente del Consiglio). Ma è sulle richieste che Bossi ha fatto a Berlusconi che, a me pare, si dimostri inequivocabilmente come la Lega abbia perso la scommessa che aveva fatto con sè stessa: essere contemporaneamente forza di lotta e di governo. Ma come? Solo ieri i leghisti si accorgono che il patto di stabilità sta soffocando i comuni e, con loro, le miriadi di microimprese che lavoravano per loro? E dov'erano Bossi, Calderoli, Maroni mentre i sindaci manifestavano a Roma tutto il loro disagio? Ma come? La Lega prima chiede l'abolizione dei Ministeri visti come 'carrozzoni' e adesso ne vuole portare qualcuno in Lombardia? E l'equazione "stop alla missione in Libia = più risorse per abbassare le tasse" siam proprio sicuri che riesca? Solo ieri i leghisti si sono accorti che le "multe per il latte" erano ingiuste e solo ieri dicono di voler andare al Consiglio Europeo perché intervenga? Ma non hanno un Ministro dedicato alle politiche comunitarie? Mah...
Che la forza sia con voi!

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giovedì 16 giugno 2011

DANIEL

Don Angelo Casati è prete a Milano. Anzi, di più: prete in una parrocchia che sta in via Montenapoleone, la via dello shopping e della ricchezza esibita e posseduta (anche se a me quella via sembra tristissima). Eppure, don Angelo è profeta di quella 'chiesa minore' di cui mi sento parte. Pubblico  (vieppiù senza chiedergli il permesso ma - immagino - mi pedonerà) una lettera giuntagli, a Pasqua, via mail e da lui poi commentata...a scriverla due parroci di una parrocchia di Verona...

DANIEL FIORE DI RISURREZIONE


"Lo depose dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo mise in un sepolcro". Così il Vangelo di Luca narra della sepoltura di Gesù. (Lc 23,50-56). Seppellire i morti è un segno di civiltà, di pietas, di umanità. Il mito greco di Antigone ha trovato differenti interpreti. Una grande donna dei nostri giorni, Marianela Garcia Villas, che nel Salvador ha lottato a fianco di mons. Romero, dava sepoltura ai corpi dilaniati dalla violenza degli squadroni della morte. Accade che anche in una bella città come Verona, conosciuta nel mondo come la "città dell'amore", si possa morire proprio sul "Liston", il luogo più "in" della famosa piazza Brà, da secoli spazio del passeggio dei veronesi "perbene". Muore un uomo di trentacinque anni, straniero, un uomo in carrozzella perché senza piedi. Muore mentre il sole sta calando, alle sette della sera. Il giornale dà una stringata notizia. L'uomo non ha nome. E' definito un senza fissa dimora. E' una morte generica in un contesto eccezionale. Forse un grande tenore avrebbe desiderato, dopo la sua performance, morire lì , uscito dall'Arena ( teatro lirico tra i più noti al mondo) con un bicchiere in mano come a proseguire il brindisi dell'opera. Ma questa morte è ancora più amara, quella di un uomo che muore al centro della città nella più perfetta solitudine. "Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù" prosegue il vangelo. Come preti e comunità cristiana di San Nicolò ci siamo chiesti: "Dove sarà finito quel corpo? Qualcuno avrà chiesto di seppellirlo?" Telefonate, uffici, telefonate di nuovo, di nuovo uffici. Il corpo di un uomo quando entra nel corpo della burocrazia rischia di andare perduto. " No nessuno ha chiesto di lui" rispondono infine. Allora diciamo "lo chiediamo noi" per dargli sepoltura. Fino a quel momento è "solo un uomo" non ha nome, non ha volto. "Un uomo" proprio come narra il Vangelo nella parabola del Buon Samaritano. E ci diciamo " Non è sufficiente essere un uomo"? Si chiama Daniel Atomi, è nato nel 1975 in Romania. Questo è quello che sarà scritto sulla croce al camposanto.
"Prepararono aromi e oli profumati" racconta Luca.
Non sarà un funerale anonimo. Sarà celebrato nel cuore della città, esattamene come nel cuore della città quell'uomo è morto. Non sarà un funerale cattolico. Non vogliamo appropriaci di un corpo, di una memoria, per rendere più presentabile una chiesa. Sarà un funerale ecumenico. Un funerale cristiano in cui il rito ortodosso e cattolico vivranno la legge dell'ospitalità. E insieme alla lingua di questa nostra terra le preghiere risuoneranno nella lingua materna di Daniel, nella lingua della Romania. Da quando quel corpo ha un nome si ricostruisce pian piano una trama. Perché non aveva piedi Daniel? Perché in un campo minato da bombe, eredità vergognosa della guerra, era andato a raccogliere il pallone di ragazzi che stavano giocando laggiù nel suo paese. Così la guerra gli ha portato via i piedi. Ma nessun ragazzo è saltato in aria.
La guerra esplode anche dopo che è finita. Continua ad esplodere nel cuore della terra.
Quell'uomo era passato in questa città, era stato accolto alla "Locanda" dai volontari della Caritas, proprio come l'uomo di cui si parla nella parabola del Buon Samaritano. Dei giovani volontari ricordano di aver versato su di lui "olio e vino". Di aver lavato il suo corpo, medicato le sue ferite. Daniel ora ha un nome e anche un volto.
" Il giorno di sabato osservavano il riposo come era prescritto", dice il vangelo.
Riposo come riflessione, come stacco dal tempo frenetico della città. Un tempo per pensare. Un tempo di silenzio, così necessario e talvolta così imbarazzante per chi con le parole coltiva l'oblio. In chiesa c'è molta gente. Gli adolescenti cantano i canti ecumenici di Taizè. Risuona il vangelo di Lazzaro e del ricco epulone, là dove si narra che Dio non dimentica il nome del povero.
Le litanie e le preghiere nella lingua rumena sembrano come la cantilena di una madre che addormenta il figlio stretto al suo seno. È come se quel rito avesse dato dignità a quella morte. Avesse tirato fuori dal sepolcro quell'uomo : " Lazzaro vieni fuori!"
Sul marciapiede del "Liston" Daniel era solo un mucchio di stracci. Ora sembra un principe, è lui ora "il Figlio dell'uomo vestito di gloria". Si raccolgono frammenti della sua vita. Un amico del suo Paese dice che aveva moglie e una bambina. Si vorrebbe ritrovarle, dire loro che Daniel ha avuto una sepoltura degna di un uomo, che riposa non dimenticato nella terra del cimitero. Si vorrebbe aiutare quella bambina a crescere. Mettersi sulle sue orme, ritrovarla e portarle l'ultima carezza del padre. Il rito termina. I giovani, prima che la bara esca di chiesa, vanno di corsa verso il campanile e suonano le campane a distesa. All'inizio era stata letta le poesia di Ungaretti "Si chiamava Mohammèd Scèab…" dove il poeta parla della morte di un uomo da tutti dimenticato e che conclude così : "L'ho accompagnato insieme alla padrona dell'albergo dove abitavamo a Parigi […] Riposa nel camposanto d'Ivry […] E forse io solo so ancora che visse".
No, dicono i ragazzi, la città deve sapere. Bisogna risvegliarsi, aprire gli occhi e le orecchie.
Uno di noi si avvia al camposanto. Solo con il corpo di Daniel. Una vecchia donna al camposanto chiede chi sia quel morto senza corteo. " E' un giovane straniero, si chiama Daniel …" sussurra il prete. La donna si mette al suo fianco e dice nella lingua dei poveri " Vengo io con voi: io sono la madre…"
E getta poi nella fossa un fiore prima che la terra copra il corpo di "suo figlio". Il prete si volta e gli sembra di vedere anche una giovane donna e una bambina e poi un intero popolo in piedi.
Finisce il giorno nel silenzio e "…già splendevano le luci del sabato".

Questa lettera la 'dedico' a quanti vanno a messa tutte le domeniche (o forse anche di più) e poi invocano il pugno duro, l'esclusione, la chiusura nei confronti di chiunque è diverso da loro. E ce ne sono tanti, sapete? Ma proprio tanti....


Che la forza sia con voi!

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mercoledì 15 giugno 2011

SONO ARRIVATO UNO

Dunque...chi ha vinto i referendum? Domanda apparentemente ovvia: poiché i referendum sono abrogativi hanno vinto i sì. Non solo hanno vinto in maniera straripante ma questa volta - dopo tempo - si è persino raggiunto (e superato) il quorum. Dunque hanno vinto i promotori dei quattro quesiti referendari. A cui si sono uniti poi i partiti del centrosinistra con leggerisisme differenziazioni sui diversi quesiti. E ora questi partiti 'brindano' alla vittoria. A torto o a ragione? A torto, secondo me. Perché vi è una 'strana' somiglianza tra questo risultato e quello delle elezioni amministrative, specialmente guardando a Milano e a Napoli. In quel caso, infatti, più che i partiti ha potuto la capacità dei due candidati di attrarre nuovi entusiasmi e nuove forze dalla moltitudine di persone che non sono iscritte a nessun partito (e che a Milano facevano abbondante sfoggio di arancione). L'impressione che si ricava dal risultato dei referendum è che su alcuni temi chiave come l'acqua, l'energia nucleare (sebbene siano stati trattati con grande demagogia) non vi è disciplina di partito che tenga. Nemmeno in casa Lega che era ed è il simbolo dell'essere partito per eccellenza. Nuove anche le modalità della campagna elettorale molto più proiettata (anche per lo scandaloso comportamento della televisione) sui nuovi mezzi di comunicazione, Facebook o Twitter oramai degni successori dei tazebao sessantottini. E se Berlusconi ha indubbiamente perduto (ormai gli italiani non mi asocltano più, così secondo 'Il Corriere', si sfogava con alcuni suoi collaboratori) a me pare che da questa vittoria il centrosinistra stia traendo una lezione sbagliata: la maggioranza è andata all'abrograzione di alcuni disegni di legge non ad uno schieramento politico! E' un errore doppiamente pericoloso: innanzitutto perché rischia di 'infastidire' quanti si sentano politicizzati strumentalmente per aver votato sì. Poi perché si rischia, ancora una volta, di travisare la realtà: l'unico modo per sconfiggere la destra è la costruzione di un progetto politico per il paese fatto di scelte forti, coraggiose, riformiste. Attorno al quale costruire (finalmente!) una coalizione ed individuare un candidato. E' su questo che io credo occorra lavorare. Approffittando proprio delle tre lezioni ricevute da Pisapia, De Magistris, referendum: esistono oggi formidabili strumenti di informazione e di trasmissibilità delle notizie; strumenti che non si prestano ad alcuna manipolazione né 'devianza'. Ecco: da qui dobbiamo ripartire. Perché ora per governare ci manca un solo : quello per abrogare questo centrodestra.
Che la forza sia con voi!

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lunedì 13 giugno 2011

W LA RAI

La pluralità dell'offerta televisiva è un bene preziosissimo: sei tu a scegliere cosa vedere in base ai tuoi interessi, alle tue voglie, ai tuoi desideri. Ho più volte detto che a me, ad esempio, la televisione urlata non piace e per questo, lo ammetto, vedo pochissimo (per nulla a dir la verità) Annozero di Michele Santoro. Ma anche se non lo vedo continuo ad essere militante di centrosinistra: non credo, in altre parole, che la sconfitta del centrodestra alle amministrative sia imputabile a questa trasmissione (affermarlo significa, con eleganti parole, dare degli imbecilli agli italiani che anziché votare sulla base di un proprio giudizio si lasciano fuorviare dalla televisione...errore in cui spesso è caduto anche il centrosinistra). E però l'addio di Santoro alla Rai è una scelta sbagliata. Sbagliata perché Santoro significa pubblicità e dunque risorse cui la Rai dovrà fare a meno. Ora si profila pure il possibile addio di Fabio Fazio che da tempo sta chiedendo di conoscere il futuro della sua Che tempo che fa (trasmisisone davvero molto bella e, a me pare, assolutamente poco...politica). Lo ha scritto lo stesso Fazio a Repubbilca (qui il testo).
Di fronte a ciò mi pare assolutamente condivisibile quando dichiarato (sempre a Repubblica) dal segretario del PD, Pierluigi Bersani:

Attenzione. Chi con perfetta cognizione di causa toglierà valore all'azienda pubblica che deve provvedere a promuovere e tutelare, pagherà di tasca propria. Lo prendo come impegno mio e del mio partito per oggi e per domani. E' tempo infatti di ricordare che l'amministrazione infedele di un patrimonio pubblico consuma il peggiore dei tradimenti. Il modo per garantire assieme pluralismo e risultati aziendali è aggiungere e non togliere.


Che la forza sia con voi!

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venerdì 10 giugno 2011

IN NOMINE DEI

Dunque (come per'altro da settimane va sostenendo Il Corriere) Angelo Scola potrebbe essere il prossimo cardinale di Milano, successore di Martini e Tettamanzi. Nelle mani di Bendetto XVI una terna di nomi emersi al termine di un lungo percorso fatto di consultazioni individuali, collettivE, fino al voto segreto dell'assemblea dei vescovi di giovedì. Ma, certo, Bendetto XVI (il papa non è vincolato a questi 'suggerimenti' che sono assolutamente consultivi) nutre stiuma profondisisma nei confronti del Patriarca di Venezia cui lo lega non solo un'amicizia quarantennale ma anche una profonda condivisione della medesima visione teologica ed ecclesiale. E questi potrebbero essere motivi sufficienti a spingere Ratzinger ad una nomina 'soprendente' per almeno due motivi. Il primo appartiene alla 'tradizione' (concetto cui la Chiesa è particolarmente sensibile): si è soliti dire che da Venezia, il Patriarca va via solo per fare il papa (ed è accaduto abbastanza spesso in passato). Il secondo è anagrafico: Scola ha 70 anni ed i Vescovi (lo stabilisce il diritto canonico) a 75 anni vanno in pensione, con una tolleranza di un paio d'anni (ed infatti Tettamanzi ne ha 77). E dunque fosse lui il nuovo vescovo milanese, erede del grande Ambrogio, avrebbe davanti a sè un episcopato temporalmente limitato. Ma questo potrebbe essere proprio un 'regalo' che il Papa fa al suo vecchio amico. A meno che.... Angelo Scola (lo ha detto lui stesso) nasce alla fede anche attraverso l'incontro con Comunione e Liberazione (e CL a Milano significa Formigoni non certo Pisapia) scegliendo di essere ordinato sacerdote dal vescovo di Teramo (vicinissimo a CL) Abete Conigli. E' assolutamente vero che, diventato vescovo di Venezia, egli ha avuto un sostanziale approccio ecumenico nei confronti delle molteplici organizzazioni laicali presenti in diocesi (e CL non pare, fra esse, la più forte) ma è indubbio che la nomina del vescovo di Milano proprio perché riguarda non solo la diocesi più grande d'Italia ma anche il cuore economico di questo nostro paese, si connatura anche di motivazioni politiche. Ed ecco che un Scola cardinale di Milano potrebbe essere visto come 'elemento di riequilibrio' per una città che ha abbandonato il centrodestra per scegliere Giuliano Pisapia. Insomma: una sorta di reazione a questi ultimi anni ove Martini prima e Tettamanzi (specie nell'ultima fase del suo episcopato) poi hanno insistito molto sulla capacità profetica di una Chiesa che proclama sempre e comunque la verità. Anche quand'essa è scomoda per i potenti di turno....

Che la forza sia con voi!

P.S.: e a Venezia? Beh se si segue la logica che ha visto un vescovo (ausiliario) veneto doc come Beniamino Pizziol diventare vescovo di Vicenza, allora potrebbe essere un altro veneto ad occupare il posto di Scola: Pietro Parolin da Schiavon (Vicenza) attuale numero tre della Segreteria di Stato e nunzio apostolico (ambasciatore) in Venezuela. Anche se in molti vorremmo il 62enne Bruno Forte, teologo progressista, arcivescovo di Chieti/Vasto. Ma, in queste scelte, al solito noi laici non abbiamo voce in capitolo.

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martedì 7 giugno 2011

SULLA MEMORIA

Una coincidenza incredibile, densa di una drammaticità che spesso la storia ci regala...Il 10 giugno del 1981 Alfredo Rampi, un ragazzino romano, non torna a casa...inutilmente lo cercano fino a scoprire ch'era scivolato in un pozzo artesiano. Quello stesso giorno Roberto Peci, fratello del brigatista pentito Patrizio, viene sequestrato dalle Brigate Rosse per ritorsione contro il pentimento del fratello. In entrambi i casi queste dolorosissime vicende si conclusero con la morte dei due protagonisti. Su questa singolare coincidenza Walkter Veltroni costruisce il suo ultimo libro, L'inizio del buio (ed. Rizzoli).
Quando Roberto viene vigliaccamente trucidato dai terroristi, sua moglie attendeva una bimba. Quella bimba. che sarà chiamata Roberta, è cresciuta senza aver conosciuto suo padre. Un destino del tutto simile a quello di altri figli di vittime del terrorismo: Benedetta (Tobagi), Mario (Calabresi) su tutti. Giovanni Bianconi, de Il Corriere della Sera, ha intervistato Roberta....questo è quanto lei ha detto:
Quando suo padre è morto lei non era ancora nata. Accadeva trent' anni fa, 1981, anno di piombo, di omicidi efferati e di grandi cambiamenti: dalla scoperta della Loggia P2 all' attentato a Giovanni Paolo II, al primo governo dell' Italia repubblicana guidato da un non democristiano. Il 10 giugno, in una strada laterale di San Benedetto del Tronto che allora si chiamava via Arrigo Boito, un commando delle Brigate rosse-Partito guerriglia rapì Roberto Peci, fratello di Patrizio, il primo pentito del terrorismo di sinistra. Lo tennero sequestrato per cinquantaquattro giorni, filmando i suoi interrogatori e le false confessioni sul «doppio arresto» di Patrizio, rese nella speranza di tornare libero; il 3 agosto lo uccisero, con un cappuccio in testa e un cartello al collo: «Morte ai traditori». Fotografarono l' esecuzione e abbandonarono il cadavere in una sorta di discarica alla periferia di Roma. Roberto aveva 25 anni, una moglie e una bambina in arrivo che venne alla luce il 16 dicembre 1981. Doveva chiamarsi Rachele o Carlotta, invece sua madre le diede il nome del padre assassinato quattro mesi prima: Roberta. Oggi via Arrigo Boito si chiama via Roberto Peci, il cambio di targa è avvenuto il 9 maggio scorso; poche ore prima Roberta e sua madre erano a Roma, al Quirinale, invitate alla cerimonia ufficiale della Giornata per le vittime del terrorismo. «Sono stati due fatti molto importanti, perché finalmente ci siamo sentiti quello che siamo, familiari di vittime come tutti gli altri, non più di serie B», dice Roberta. Il suo obiettivo è salvaguardare la memoria del padre: «È un mio dovere, l' unica cosa che posso fare per lui. In molti l' hanno definito un brigatista, come fosse la vittima di una faida interna, mentre lui con le Br non aveva niente a che fare, era solo il fratello di un brigatista che ha scelto di fare il pentito. L' hanno ammazzato per ritorsione, ma non era un terrorista. Vedere finalmente riconosciuta questa verità in forma ufficiale, attraverso l' invito al Quirinale e l' intitolazione della strada in cui fu rapito, per me è stato un grande sollievo, come una forma di riparazione». Ma la ricerca di un po' di serenità per la figlia di Roberto Peci non è finita: «Vorrei incontrare i suoi assassini, a cominciare da Giovanni Senzani, il capo del gruppo che organizzò e decise il sequestro e l' esecuzione». Arrestato nel 1982, condannato all' ergastolo per il delitto Peci e altri omicidi, da qualche tempo Senzani è tornato ad essere un uomo libero. «Ho cercato il suo avvocato e ho lasciato il mio numero chiedendo di essere richiamata, ma non è successo», racconta Roberta che nel trentesimo anniversario del rapimento spiega perché vorrebbe guardare negli occhi il carnefice di suo padre: «Lui per me è sempre stato una specie di mostro, mentre io vorrei riuscire a esorcizzare quest' immagine e riuscire a vederlo come persona, ascoltarne le ragioni, fare domande e sentire risposte. Vorrei perdonarlo, per coltivare sentimenti che non siano di rabbia né di vendetta. Ma prima ho bisogno di vederlo in faccia. Io non sono cattolica, ma mi servirebbe per andare avanti, per chiudere un cerchio della mia vita. Lui ha pagato il suo debito con la giustizia secondo le leggi, e va bene, ma credo che abbia un debito morale con me e la mia famiglia che sarebbe giusto assolvere. Vorrei che mi spiegasse le vere ragioni di un omicidio tanto assurdo quando crudele, di un martirio che alla fine è stato controproducente per le stesse Br; volevano fermare il fenomeno del pentitismo, mentre è accaduto il contrario». Al regista del sequestro Peci e agli altri carcerieri, Roberta vorrebbe anche chiedere lumi sul padre che non ha mai conosciuto: «È un paradosso, ma le uniche immagini di mio padre che parla e si muove, io le ho avute grazie ai filmati girati dai suoi aguzzini nel covo in cui lo tenevano prigioniero. Le ho guardate per intero solo qualche giorno fa, scoprendo un uomo bellissimo, disperato e rassegnato alla morte. Avrà pensato a mia madre, a me che dovevo arrivare, alla fine assurda che lo aspettava. Io ho già vissuto più di lui con questo fardello addosso, e l' esistenza di mia madre da trent' anni è come una linea spezzata. Vorrei chiedere conto di tutto questo, che cosa diceva mio padre nelle lunghe giornate di prigionia, come si comportava. Mi servirebbe per continuare a conoscerlo, visto che non mi è stato concesso di farlo di persona». Quell' infanzia mutilata, di cui Roberta si rese conto al parco giochi dove gli altri bambini arrivavano accompagnati dai papà, e quando lei domandava perché il suo non c' era la madre la portava via in lacrime, fu dovuta anche all' intransigenza dei mass media che non vollero trasmettere i filmati dell' interrogatorio di Peci, né pubblicare i proclami brigatisti, come richiesto dai sequestratori: «È un comportamento che a me riesce difficile accettare. Negli stessi giorni le Br tenevano prigioniero l' assessore della Regione Campania Ciro Cirillo, per lui lo Stato trattò e l' ostaggio fu liberato. Furono usati due pesi e due misure, e nessuno ha mai spiegato perché». Oggi l' intitolazione di una strada e l' invito al Quirinale - «dove con mia madre ci siamo ritrovate vicine a tante altre persone che hanno subito il nostro stesso destino, e le assicuro che è un aiuto importante» - per Roberta Peci è una sorta di risarcimento da parte dello Stato. Sebbene una vita vissuta da orfana non potrà essere ripagata da nessun gesto. Né delle istituzioni, né di Senzani o degli altri brigatisti, se mai dovesse arrivare: «Ormai ci credo poco, anche se non smetto di sperare». Per un periodo ha sperato che pure un' altra persona s' interessasse a lei, ma non è successo: «Patrizio, il fratello di mio padre. L' ho visto un paio di volte, da bambina, poi mai più. In fin dei conti anche lui è responsabile della morte del babbo, perché se non avesse parlato e avesse accettato le conseguenze delle sue gesta di terrorista oggi mio padre sarebbe accanto a me». Però le Br sarebbero durate più a lungo, senza i pentiti e gli arresti chissà quante altre persone sarebbero morte. «Lo so - ribatte Roberta -, ma io sono la figlia di una vittima delle Brigate rosse, di cui faceva parte Patrizio, non mio padre che era un proletario, un lavoratore con una famiglia appena avviata, vittima di un disegno che dopo trent' anni continua a non essermi chiaro fino in fondo. Aspetto ancora che qualcuno mi faccia capire perché invece di Rachele o Carlotta mi chiamo Roberta. C' è stato un tempo in cui quasi mi vergognavo di questo nome, oggi ne sono fiera».
Che la forza sia con voi!

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lunedì 6 giugno 2011

W CAVOUR!

Massimo Gramellini su La Stampa...

A quattordici anni avevo tre poster nella stanza: Pulici, i Genesis e il conte di Cavour. Qualcuno troverà innaturale l’innamoramento di un adolescente per un professionista della politica, per di più di idee liberali. I giovani dovrebbero ergere a proprio modello i rivoluzionari e concordare con Dumas, l’inventore dei Tre moschettieri: «Che posso farci con Cavour, io? Cavour è un grande uomo di Stato, un politico consumato, un uomo di genio. Più in gamba di Garibaldi, ma non porta la camicia rossa, lui! Garibaldi è un pazzo, uno sciocco, ma uno sciocco eroico: ci intenderemo benissimo».
Invece la mia indole garibaldina rimase sedotta da Cavour. Forse per la legge degli opposti. O forse perché Cavour è un personaggio romantico che per esserlo non ha bisogno di lanciare proclami da un cavallo bianco. La mia fascinazione fu in gran parte determinata dalla lettura delle sue «bravate» giovanili.
Il disprezzo con cui accolse la nomina a paggio di Carlo Alberto («Non vedo l’ora di togliermi di dosso questa livrea da gambero») e la descrizione che di lui diede il padre, il marchese Michele, in una lettera alla moglie: «Nostro figlio è un ben curioso tipo. Anzitutto, ha così onorato la mensa: grossa scodella di zuppa, due belle cotolette, un piatto di lesso, un beccaccino, riso, patate, fagiolini, uva e caffè. Non c’è stato modo di fargli mangiar altro! Dopodiché mi ha recitato parecchi canti di Dante e le canzoni di Petrarca, passeggiando a grandi passi in vestaglia con le mani affondate nelle tasche». Mi catturò questa bulimia del vivere, la ricerca spasmodica di emozioni forti che farà di lui uno scommettitore spregiudicato, un viaggiatore infaticabile e un amante smanioso di conquiste ma incapace di amori profondi, perché la quiete in cui crescono i sentimenti autentici si scontrava con il perpetuo bisogno d’azione che in lui fungeva da antidoto alla depressione.
Mi identificai con questa sua tara psicologica e ancora oggi, quando salgo al Monte dei Cappuccini per rimirare il panorama di Torino, il pensiero corre al giovane Cavour che non vede sbocchi per il suo talento in un Piemonte asfittico e reazionario, e al culmine di una giornata di pensieri cupi si affaccia al bastione per gettarsi nel vuoto, trattenuto a stento da un cappuccino, fra Valeriano. Che un frate abbia salvato la vita al futuro mangiapreti mi è sempre sembrata un’ironia della Provvidenza. Non nego che da ragazzo il suo anticlericalismo (abbinato però a un grande rispetto per la spiritualità) abbia contribuito a farmi innamorare di lui. Lessi l’articolo del Risorgimento in cui l’ormai quarantenne Cavour raccontava la scena del ricatto subìto sul letto di morte dal suo amico del cuore, Santorre di Santarosa, al quale il prete negò l’estrema unzione, subordinandola all’abiura delle leggi Siccardi. Erano leggi civili, che abolivano odiosi privilegi ecclesiastici nel campo della giustizia e del fisco. Il 7 marzo 1850, il deputato Camillo Cavour le appoggiò alla Camera con un discorso magistrale: «Gli abusi vanno riformati in tempi pacifici, prima che ci vengano imposti dai partiti estremi. Le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano, invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario, lo riducono all’impotenza». Era ed è il manifesto del riformismo: l’unica ricetta di progresso sociale possibile, perciò osteggiata dai reazionari che non vogliono cambiare nulla e dai massimalisti che, per la smania di cambiar tutto, finiscono sempre per fare il gioco dei reazionari.
Emozionarsi per il riformismo a vent’anni ha qualcosa di mostruoso, lo ammetto. Ma la colpa o il merito erano di quel formidabile «testimonial». Cavour non era un parolaio né un utopista. Ma quanto coraggio e quanta passione vibravano nella sua politica economica liberale, che abolì i dazi e indebitò lo Stato per costruire infrastrutture all’avanguardia e promuovere consumi e investimenti, proiettando il Piemonte nel futuro. E quanto genio e quanta visione nella sua politica estera. Fu abbastanza sognatore da immaginare l’Italia (almeno quella del Nord) e abbastanza pragmatico per capire che non potevamo costruirla solo con le nostre forze, come avrebbe voluto Mazzini. Così curò il suo alleato, Napoleone III, lo compiacque nelle smanie cospiratrici, nei vizietti d’alcova e finanche nei disegni dinastici, obbligando Vittorio Emanuele II, pover’uomo, a concedere in sposa la renitente figlioletta Clotilde a un parente dell’imperatore. Ecco, se Cavour aveva un difetto, era di essere disposto a sacrificare tutto, compresi gli affetti, agli interessi supremi dello Stato. Ma siamo sicuri che per un politico sia un difetto?
È più semplice innamorarsi di un Garibaldi, di un Braveheart, di un Che Guevara. Ma Cavour è l’Utopia che scende sulla Terra e si fa carne, progetto concreto. È l’eterno bambino che quando gli annunciano che l’Austria ha abboccato al suo bluff e ci ha dichiarato guerra (facendo così scattare la clausola di mutuo soccorso con la Francia) incomincia a saltellare per la stanza, cantando una romanza e steccandola maledettamente. È il despota collerico che, dopo l’armistizio di Villafranca che concede al Piemonte la sola Lombardia, implora Vittorio Emanuele di non firmare e, di fronte alle resistenze del sovrano, gli grida: «Sono io il vero Re!» e se ne va sbattendo la porta.
Non mi fu facile da ragazzo, e non lo è nemmeno oggi, digerire la spregiudicatezza con cui il Conte scalò la presidenza del Consiglio, segando la poltrona su cui stava seduto quel gentiluomo di Massimo D’Azeglio, che pure lo aveva voluto al governo come ministro dell’Agricoltura («Ch’a stago sicur che côl lì, an poch temp, an lo fica an’t el pronio a tuti», «state sicuri che quello lì in poco tempo lo metterà in quel posto a tutti», profetizzò allora il Re, che non lo amò mai, ma seppe intuirne il talento). Anche l’idea del Connubio, l’accordo con la sinistra moderata di Rattazzi, fa storcere la bocca ai puristi, che vi vedono l’archetipo degli «inciuci» parlamentari che da 150 anni sono la nostra croce. Eppure c’è una differenza fondamentale tra Cavour e i suoi pallidi successori. In lui la manovra politica non era mai un fine, ma un mezzo per perseguire obiettivi più grandi, che trascendevano la sua ambizione personale. Il Conte aveva un progetto. E sono i progetti a distinguere gli statisti dai politicanti. «Noi abbiamo fatto l’Italia. E la cosa va», disse sul letto di morte. Una morte prematura, a soli 51 anni. Il triste finale di una storia che rileggo ogni anno nella speranza infantile di un colpo di scena: che Cavour guarisca e, 150 anni dopo aver fatto l’Italia, ci aiuti a fare gli italiani. Lui che di italiano non aveva nulla, se non il genio, se non il cuore.

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