lunedì 31 maggio 2010

DUBBI

La Giunta Municipale di Mira si riunisce - in "seduta ordinaria" - tutti i martedì mattina in una sala attigua alla sede del Consiglio Comunale e attorno a dun tavolo ellittico. Il sindaco siede in testa, accanto a lui (da sinistra verso destra). Io mi siedo alla sua sinistra. Accanto a me l'assessore Cestonaro. E poi gli assessori Gasparini, Carlin, Lorenzin, De Lorenzi e Barberini. A chiudere questa ellissi il segretario e il direttore generale. Ogni riunione si apre con le comunicazioni del Sindaco e prosegue con l'approvazione delle delibere, ciascuna illustrata dall'assessore di riferimento (a volte coadiuvato dal proprio dirigente) e ampiamente discussa da tutti noi. Il lunedi pomeriggio, nelle nostre cassettine, troviamo la cartella con tutte le dleibere in esame l'indomani in modo che ciascuno possa esaminarle preventivamente.
Questa lunga digressione perché ho sempre pensato che, fatte le debite (molto debite) proporzioni - più o meno a qualunque livello (dalla giunta provinciale a quella regionale, al Consiglio dei Ministri) ci si comportasse così. Ed invece apprendo che il Ministro della Cultura Sandro Bondi si è sentito esautorato per via di una norma della legge finanziaria che prevede la soppressione di una serie di finanziamenti ad enti culturali di grande importanza. E qui la domanda che mi pongo è ma non ne hanno parlato prima nel Consiglio dei Ministri? In realtà Bondi ha perfettamente ragione: è stato esautorato. Ma non tanto perché han deciso di tragliare senza interpellarlo. No. Per un motivo molto più serio (e preoccupante). I finanziamenti abrogati confluiranno, infatti, in un apposito capitolo di bilancio cui gli enti culturali potranno accedere solo col parere favorevole del Presidente del Consiglio e del ministro dell'Economia Del parere dell'unico ministro che sarebbe competente non interessa, evidentemente, a nessuno...
Che la forza sia con voi!

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sabato 29 maggio 2010

EDITORIALE

Da Il Corriere, articvolo firmato da Giantonio Stella

IL PARTITO DEI RIOTTOSI

A tutti gli italiani chiamati a stringere la cinghia, Pier Carmelo Russo fa ciao ciao: come dimostra il sito livesicilia.it, è andato in pensione da dirigente della Regione Sicilia con 6.462 euro netti al mese. A 47 anni. Grazie a una leggina isolana: doveva badare al papà infermo. Cosa che non gli ha impedito giorni dopo d’assumere il gravoso incarico di assessore all’Energia.




Mille chilometri più a Nord, i sindaci trentini, fallito il tentativo di avere la pensione, si apprestano ad avere un aumento in busta paga del 7% e i loro colleghi altoatesini non hanno alle viste alcun taglio: quello di Appiano prende 9.400 euro, cioè più di Letizia Moratti a Milano, quello di Lana 7.000, più di Rosa Russo Iervolino a Napoli. Quanto alla giunta comunale di Gorizia, ha appena tentato di autoridursi le indennità ed è stata bloccata dalla Regione: non potete farlo. Cosa c’entra con la manovra da 24 miliardi? C’entra. Come ha spiegato lo stesso Giulio Tremonti raccontando della necessità di non dare denaro, di questi tempi, a enti come il Comitato per il centenario del fumetto italiano e ad altri 231 dai profili talora improbabili, «i grandi numeri si fanno anche con i piccoli numeri». E non c’è dubbio che parallelamente ai tagli dolorosi presentati ieri, tagli che hanno guadagnato l’apprezzamento al governo delle autorità europee ma anche l’immediata rivolta delle sinistre, di una parte del sindacato, dei magistrati e altri ancora, ci son pezzi di questo Paese riottosi all’ipotesi di condividere i sacrifici.



A partire dal mondo della politica e da quello che ruota intorno. Prova ne sia che la svolta più radicale, il dimezzamento dei rimborsi da un euro a 50 centesimi per ogni elettore, pare essere stato ridimensionato: forse si sforbicerà il 20%, forse il 10. Così come pare essere stato accantonato un altro segnale importante, e cioè il ripristino dei controlli della ragioneria dello Stato sui conti di Palazzo Chigi e della Protezione civile. E le misure sulle stock-options dei banchieri. Il punto è che provvedimenti coraggiosi, ustionanti e in buona parte condivisibili (vedi la lotta dichiarata all’evasione) come quelli varati, che chiedono agli italiani, dopo anni di rassicurazioni ottimistiche, di farsi carico d’una situazione pesante, richiedono la massima trasparenza. La storia ci dice che il nostro è un Paese che nei momenti più difficili sa dare il meglio. Ma deve crederci. E per crederci ha bisogno di essere rassicurato su un punto: che pagheranno davvero tutti. Nel modo più giusto.



E questa limpidezza non deve essere neppure sfiorata dal sospetto che, dietro le migliori intenzioni, si nascondano tentazioni inconfessate. E che tutta la parte «etica», inserita per dimostrare ai cittadini più colpiti che questa volta non ci sono figli e figliastri, venga goccia a goccia svuotata. Perché forse esagera il Consiglio nazionale degli architetti nel diffidare delle smentite sulla sanatoria fino a denunciare «sconcerto per il nuovo condono che incentiva l’abusivismo edilizio». Ma sarebbe insopportabile se all’ultimo secondo, in piena estate, un attimo prima di un voto di fiducia finale in Parlamento, per iniziativa di qualche misteriosa «manina», spuntasse fuori di nuovo il solito condono.

venerdì 28 maggio 2010

IN NOME DEL PADRE

Dal Corriere

Mio padre non un eroe di Luca Tobagi

ma testimone dell’impegno


 

Che cosa significa, per un figlio, custodire la memoria di un padre come Walter Tobagi a distanza di trent’anni? Innanzitutto, conservare il ricordo di un padre affettuoso e premuroso, presente e desideroso di poter dare un futuro migliore non solo ai suoi figli, ma a tutto il Paese, attraverso l’impegno nel suo lavoro. Su mio padre sono state dette e scritte molte cose. È stato commemorato in vari modi e circostanze, e ringrazio tutti coloro che ne hanno mantenuto vivo il ricordo.




La sua figura è stata un complesso intreccio di passione e impegno civili e professionali. I miei familiari e io non abbiamo mai nascosto né sminuito l’importanza delle sue idee politiche, della sua fede religiosa, o della dedizione al suo mestiere. Talvolta le commemorazioni si sono concentrate su uno solo di questi aspetti. Mi pare che nessuno di questi elementi, da solo, restituisca l’immagine corretta di un uomo che ha compreso la responsabilità sociale associata ai comportamenti individuali di alcuni di noi. Chi è in grado di analizzare una realtà difficile e renderla comprensibile comunicando, così come chi detiene altri tipi di ricchezza o potere, ha una responsabilità verso gli altri alla quale non è giusto sottrarsi. Uno dei principi che mi hanno guidato in questi anni, oltre alla riservatezza sul modo di vivere una vicenda che, nonostante gli importanti risvolti pubblici, continuo a ritenere in larga misura privata e personale, è stato l’apertura alla conoscenza, l’ascolto e il dialogo con tutti che ha sempre caratterizzato i comportamenti di mio padre. Per questo, al di là dei miei sentimenti e delle mie opinioni (credo che il miglior modo di ricordarlo sia attraverso la lettura, il più possibile organica, dei suoi scritti e del libro di mia sorella Benedetta), ne ho sempre accettato le commemorazioni: non tanto perché fosse importante che se ne parlasse, quanto perché ho sempre ritenuto che la sua memoria fosse un patrimonio comune e che lui non si sarebbe mai sottratto all’incontro con qualcuno, anche di idee e atteggiamenti molto diversi dai suoi. Tuttavia, per una volta in trent’anni, qualche puntualizzazione si rende necessaria.



Condividere la memoria non significa concedere a chiunque il diritto di appropriarsene. Con il trascorrere del tempo, persone che hanno partecipato, nella migliore delle ipotesi, solo ad alcune delle idee e delle iniziative riformiste di mio padre quando era vivo, o che lo hanno conosciuto fugacemente o solo per sentito dire, hanno provato ad accostare al suo nome appartenenze e realtà (anche di oggi) che con lui hanno avuto poco o nulla a che fare se non qualche etichetta. Ciò, secondo me, rappresenta una distorsione della figura di mio padre ed una forzatura, quando non addirittura un travisamento, della realtà.



Lo dico senza risentimento o intenti polemici, ma solo perché la mia discrezione di tanti anni non venga scambiata per condiscendenza o approvazione. E questo mi porta alla seconda considerazione: la memoria non va solo custodita o difesa, ma anche coltivata, perché porti frutto. Del lavoro di mio padre è stata sovente sottolineata la modernità. Sicuramente era un uomo intelligente e capace di cogliere nelle sue analisi dei fenomeni sociali, con una certa lungimiranza, i segnali di situazioni e problemi che si sarebbero sviluppati nel tempo. Di ciò non posso che essere orgoglioso.



Ma se il suo lavoro sembra ancora attuale, a trent’anni dalla sua morte, non può essere soltanto per la sua modernità. Purtroppo, ed è per me motivo di profonda afflizione, ciò dipende dal fatto che la società italiana, sotto alcuni aspetti critici, non è cambiata molto in questi decenni.



Le lacerazioni e il disprezzo dei valori umani e civili, che mio padre ha cercato di contrastare con il suo impegno in vita, sono presenti ancora oggi, in forme fortunatamente diverse, ma purtroppo sempre intensi. Questa realtà mi interpella come figlio, padre e cittadino. Forse è giunto il momento di trasformare il ricordo e l’eredità intellettuale di un uomo come Walter Tobagi in uno stimolo individuale e collettivo.



Uno stimolo a moderare i toni delle discussioni, troppo spesso irrispettosi dell’interlocutore ed eccessivamente veementi, senza tuttavia transigere sul rigore delle argomentazioni, che dovrebbero essere razionali e solidamente documentate, mentre spesso, dietro agli atteggiamenti aggressivi, si cela la loro grande fragilità.



Uno stimolo a riappropriarci del senso dello Stato, dei valori della legalità, del dibattito aperto e della normalità, a cominciare dalla lingua. Per superare il paradosso di un Paese in cui, se si sorprende qualcuno che ruba, è lecito sparargli addosso, ma non lo si può chiamare ladro prima del terzo grado di giudizio senza essere bollati come giustizialisti.



Uno stimolo a irrobustire la coscienza civile dei cittadini partendo dal fondamento dell’istruzione pubblica, che deve tornare ad essere uno strumento educativo e di mobilità sociale per i giovani, come lo è stata per mio padre, ed essere potenziata, non depauperata. Uno stimolo a dedicare tempo ed energie all’analisi e alla riflessione, in una società ripiegata verso una faziosità di basso profilo e una emotività di rapido consumo, e in cui è andata smarrita la nozione che il bene pubblico sia qualcosa di diverso e superiore rispetto alla somma degli interessi privati. Forse a mio padre sarebbe piaciuto che il testimone del suo impegno venisse raccolto innanzitutto dai suoi colleghi giornalisti e da coloro che si occupano di amministrare il nostro Paese, ma non solo. La lezione importante della sua vita, infatti, è quella di non aver cercato di essere un eroe, ma di essersi assunto la sua parte di responsabilità civile, contribuendo ad affrontare problematiche difficili e drammatiche con gli strumenti a sua disposizione: duro lavoro, talento, disciplina, onestà, coraggio. È confortante, per me, riconoscere il medesimo slancio di generosità ed onestà intellettuale nelle tante persone che ogni giorno si spendono con tenacia e discrezione per il bene dell’Italia. Possiamo farlo tutti noi, ciascuno con i suoi limiti.



E quando vediamo donne e uomini che si impegnano per denunciare i problemi del nostro Paese, senza limitarsi ad una critica sterile, ma sforzandosi di proporre idee utili a superarli, possiamo sostenerli, evitando di isolarli, come talvolta è accaduto e ancora accade. Questo è un tipo di amore che mi piacerebbe veder prevalere su odio, egoismo e indifferenza. E sarebbe un ricordo concreto di mio padre proiettato verso la vita e il futuro, non il passato e la morte. Trent’anni dopo, credo lo meriti, e sono certo che lo gradirebbe.

giovedì 27 maggio 2010

CHE MONDO!!!!

Dal Tgcom:

Bimbo fuma 40 sigarette al giorno

Si chiama Ardi Rizal ha due anni e vive coi suoi genitori a Sumatra in Indonesia, un bimbo come tanti, un po' cicciottello e simpatica se non fosse per il suo brutto vizio: il fumo. Secondo quanto riporta il quotidiano The Sun, Ardi è ormai un tabagista senza freni che fuma quasi 40 sigarette al giorno. Nel video diffuso si vede anche la normalità con la quale la famiglia vive questa strana dipendenza.

Ma è lo stesso padre di Ardi a raccontare di quando gli ha dato la prima sigaretta: "Aveva 18 mesi e gli è piaciuto tanto, non ha mai smesso". Meno tranquilla la madre Diana, 26 anni, che in lacrime dice: "E' totalmente dipendente, se provi a togliergli il pacchetto comincia a piangere e a battere la testa contro il muro".
Gli assistenti sociali hanno provato anche ad offrire alla famiglia di Ardi un baratto: un'auto se in cambio obbligano il bimbo a smettere. Ma il papà, Mohammed, che di professione fa il pescivendolo, serafico risponde: "Ardi mi sembra piuttosto sano, non vedo il problema".


Che la forza sia con voi!




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GLOBALIZZAZIONE

Da Repubblica

Post-it, Flash Mob, speaker's corner

ecco i nuovi modi di fare politica

DI CARMINE SAVIANO


ROMA - Dirette su Facebook delle sedute parlamentari. Mailbombing alla Presidenza della Repubblica. E poi Netstrike e Guerrilla Marketing. Speaker's Corner e Flash Mob. La protesta contro la Legge Bavaglio è solo l'ultima manifestazione visibile di una nuova frontiera dell'impegno civile. Che si basa su nuove pratiche e su nuovi modi di comunicare la politica. Un controcanto permanente al potere costituito che passa, senza soluzione di continuità, dal web alla piazza. Un clic: e i cyber-cittadini scendono in strada per chiedere di partecipare.
Nella notte in cui la Commissione Giustizia del Senato licenzia con un si il Ddl sulle intercettazioni, viene inaugurata una nuova forma di cronaca parlamentare. Stefano Ceccanti, senatore del Partito Democratico. utilizza la sua bacheca Facebook  per una diretta della discussione in Commissione. Un continuo aggiornamento. Per rendere pubblico il dibattito tra i senatori. E in molti, da casa, partecipano e chiedono informazioni. Inchiodati al computer sino alle 3 del mattino. Un nuovo versante dell'uso politico del social network creato da Mark Zuckerberg. Che è il punto d'origine dell'appello "Libertà è partecipazione informata" e di altre, numerose, campagna d'opinione.
Della serie: c'era una volta il popolo dei fax. Una catena di mail con la stessa richiesta. L'ultimo a riceverla è il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Oggetto: richiesta di non firmare la legge sulle intercettazioni. Il promotore del mailbombing è il gruppo "Valigia Blu". Che negli ultimi due mesi ha dato lustro ad una pratica di partecipazione politica molto diffusa oltreoceano. Spendendo mail collettive a Emilio Fede e Augusto Minzolini Sul web si trovano veri e propri trattati su "Teoria e Prassi del Mailbombing".
I ragazzi del post-it 2 sono l'ultima, clamorosa, forma di protesta. Sono centinaia le foto arrivate al nostro sito. Su Twitter è ora nata l'idea di mettere un triangolo giallo sul proprio profilo (simbolo del post-it): con il sistema twibbon 3 il profilo si aggiorna automaticamente. Rilanciata anche la lettera ai giornali stranieri di Christopher Potter, 4 direttore del Festival Internazionale di giornalismo di Perugia.
Dal web alla strada: lo Speaker's Corner. E' la moda del momento. Ci si organizza - rapidamente - su Facebook. Indirizzo e orario. E poi via, spesso in una piazza centrale. Basta un megafono e un piccolo sgabello. E ognuno può dire la sua sull'argomento del giorno. Il modello è quello Hyde Park, dove c'è un angolo - ritratto anche in "Aprile" di Nanni Moretti - dove vige la regola del "comizio libero". In Italia è una specialità del Popolo Viola. Che ne organizza decine in tante città italiane e sugli argomenti più disparati. All'ultimo, svolto a Roma in Piazza Montecitorio, hanno partecipato giuristi e giornalisti.
Guerrilla Marketing. Sfondo bianco e uno slogan: "No alla Legge Bavaglio". Un marchio che diventa l'avatar con cui ci si presenta in rete. E che identifica chi sta partecipando ad una determinata protesta. Più che uno strumento, una strategia. Per implementare, anche attraverso l'uso delle nuove tecnologie, l'impatto e la diffusione del proprio messaggio. E' il Guerrilla Marketing nasce come metodo pubblicitario a metà degli anni '80 e si basa su due precondizioni: scarsità del budget e campagna d'informazione aggressiva. In politica, l'ultimo esempio è l'uso di Facebook fatto dai promotori del No B Day: una manifestazione da 500mila persone ideata e organizzata in poco più di un mese.
Il Flash Mob. Restare immobili per qualche minuto. O abbandonarsi a improvvisi gesti d'affetto. In compagnia di altre centinaia di persone. E' il flash mob è una delle forme più spettacolari della nuova comunicazione politica. La usano tutti. Addetti ai lavori, amministratori e cittadini. L'ultimo a Firenze, dove centinaia di amministratori locali 5 hanno protestato contro la rigidità del patto di stabilità. Ad un cenno prestabilito, si sono sdraiati su lenzuoli con la scritta: "Stanno mettendo il tuo comune al tappeto".
Il Netstrike. E' la versione virtuale del sit-in. Gli utenti si danno appuntamento sul sito internet dell'istituzione o del partito oggetto della protesta. Effetto: migliaia di accessi in contemporanea mandano in tilt i server. E il sito istituzionale diventa inaccessibile. I primi Netstrike sono stati eseguiti a metà degli anni '90. I più celebri in Italia nel 2001 e nel 2008. Stesso bersaglio: il ministero della Pubblica Istruzione.
Le petizioni online. Migliaia di firme in pochi giorni contro la legge bavaglio.  Tutto grazie alle petizioni online. Ovvero: come cercare di "cambiare il mondo dal basso". I siti che le ospitano sono in aumento. E le firme vengono raccolte sulle questioni più disparate. Si va dai referendum fino ai "salvataggi" di trasmissioni televisive. Per crearne una bastano pochi minuti. I maggiori problemi sorgono quando vengono presentate alle autorità competenti: spesso ci sono problemi per l'autentificazione delle firme.
Un baratto per una firma. E dalle interazioni sul web nascono le proposte più disparate. Come quelle realizzate dal Comitato promotore per il referendum sull'acqua pubblica.  Tutto per una firma: barattare una granita, partecipare ad un banchetto nuziale, scalare una montagna in bicicletta. Ed i risultati si vedono. 600mila firme raccolte in poco meno di un mese.

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mercoledì 26 maggio 2010

K2

Ognuno di noi ha un proprio immaginario individuale, fatto di credenze, convinzioni, preconcetti frutto di esperienze, letture sparse, confronti. Io, per me, son sempre stato convinto che il Monte Godwin-Austen o ChogoRi - altrimenti conosciuto come K2 - fosse in assoluto l'8000 (8611 per la precisione) più difficile da scalare in assoluto. Molto più difficile dell'Everest. Questo per via della sua collocazione geografica (spostato di 8° rispetto all'Everest) che se lo "protegge"dai monsoni nel contempo lo apre ad una estrema variabilità metereologica. Poi perché i suoi versanti sono ripidissimi specialmente verso la vetta. Infine per la pochezza assoluta di punti ove è possibile allestire un campo. Lo testimonia anche il fatto che meno di 300 alpinisti lo hanno scalato e 66 (quasi uno ogni 4!) vi hanno perso la vita. Questo era il mio immaginario. Fino a quando ho incontrato Francesco Santon, di Fiesso d'Artico, geometra come si presenta lui stesso. Ma soprattutto uno dei più grandi alpinisti italiani viventi. Uno che ha un curriculum straordinario ove spicca l'essere stato - nel 1983 - capo della prima spedizione italiana ed occidentale a salire il K2 lungo lo spigolo Nord, nel versante cinese. Al maestro (come l'ho chiamato e come chiamo pochissime altre persone usando il significato etimologico della parola, magister) ho chiesto cosa renda così difficile il K2. E la risposta che mi ha dato mi è rimasta impressa: se mi chiedi se il K2 è in assoluto la montagna più difficile da scalare allora ti dico di no. Certo, ho pensato, c'è pure l'Annapurna (massiccio che detiene il più alto numero di alpinisti morti) che Santon ha scalato, come capospedizione, nel 1977. Ed invece il Maestro quasi anticipando l'obiezione ha aggiunto: non c'è una montagna facile, non c'è differenza tra una montagna delle Dolomiti e il K2 in tutti i casi ci vuole esperienza, abilità e anche fortuna. Ma soprattutto la capacità di saper fermarsi anche se mancano 50 metri alla cima.
Scrive il Maestro: Ho capito che un uomo non vale più di un altro perché ha salito un ottomila; è soltanto più fortuinato perché è riuscito a realizzare una cosa che ha scelto di fare nella sua vita.
Che la forza sia con voi!
P.S.: piccola "soddisfazione" personale...al temrine dell'incontro ho scoperto che, come me, anche al Maestro piacciono di più lòe Dolomiti bellunesi di quelle ertane....

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martedì 25 maggio 2010

WALTER

Dall'edizione odierna de Il Corriere


L’eredità di Tobagi un valore da custodire



Walter Tobagi assassinato. La lezione del cronista che capì i nuovi barbari



di FERRUCCIO DE BORTOLI



Quel 28 maggio di trent’anni fa, era un mercoledì, pioveva e faceva ancora freddo. La primavera a Milano era stata inclemente e l’emergenza del terrorismo, che vivevamo con angoscia quotidiana, sembrava essersi trasformata persino in un cupo fenomeno atmosferico.
Il cielo color piombo, come i troppi anni di soffocante assedio della violenza e del terrore. La mattina, nello stanzone a pian terreno della cronaca di Milano, scorreva regolare nei suoi riti: il caffè, la riunione, le chiacchiere sciolte. Eravamo in due o tre, non di più. Allora i giornali si facevano soprattutto di sera e di notte, le redazioni si animavano verso le cinque del pomeriggio, il ticchettio assordante delle macchine per scrivere (oggi non lo sopporteremmo) si scatenava verso le sette, le otto. Non passava giorno, in quegli anni, che non venisse ucciso o gambizzato (brutto neologismo dell’epoca) qualcuno. E anche noi giornalisti avevamo la netta sensazione di poter essere, come lo eravamo già stati, nel mirino dei terroristi. C’era chi, esagerando come spesso ci accade, si era comprato un’arma, così per sentirsi più sicuro; chi uscendo di casa cambiava ogni giorno percorso; chi confessava di continuare a guardarsi le spalle.
Fabio Mantica, vice capocronista, un maestro della cronaca, alzò il pesante telefono di bachelite nera. Il suo viso si fece all’improvviso scuro e una smorfia gli disegnò il volto già scavato dagli anni. Era un uomo di poche parole, Mantica, ma di rara umanità. Scattò verso l’uscio e salì di corsa in direzione al primo piano. Walter Tobagi era già stato ucciso, ma noi non lo sapevamo ancora. Non c’erano telefonini, siti online, non c’era twitter, solo quei pesanti telefoni fissi, insopportabili in duplex, che restarono ammutoliti per interminabili secondi, durante i quali i nostri sguardi di cronisti si incrociarono nel tentare di capire che cosa fosse accaduto. Poi cominciarono a squillare tutti insieme. Un inferno. Mantica scese in lacrime quando noi avevamo già capito e ci sentivamo sperduti e paralizzati dal dolore. Si appoggiò allo stipite della porta principale dello stanzone, quasi lasciandosi andare. «Ma forse non è morto », disse un collega. «No, nulla da fare, Walter è morto».
Uscimmo tutti di corsa, saltammo in fretta sulle macchine posteggiate più vicino e ci precipitammo sul luogo dell’agguato. Lungo il tragitto, lo ricordo perfettamente, eravamo in tre, nessuno di noi parlò. Appena arrivati, vedemmo una scena alla quale eravamo largamente abituati e che ormai non ci faceva più il minimo effetto: le pantere della polizia e le gazzelle dei carabinieri, come si diceva allora, le ambulanze, la concitazione, le urla, il disordine assoluto. La gente era assiepata, tenuta a bada con fatica e come prigioniera di un senso generale d’impotenza e di sconforto. Le parole spezzate, gli sguardi fissi. Ma c’era chi girava il capo e proseguiva allungando il passo, cercando di dimenticare tutto in fretta. Come se la battaglia contro il terrorismo fosse stata ormai persa, definitivamente, e si dovesse per forza convivere con il terrorismo omicida. Levando lo sguardo: una sorta di omertà. In altre occasioni un pensiero del genere non mi era venuto in mente, non ci avevo fatto caso. Quella volta sì perché sotto il lenzuolo sporco di sangue e intriso di pioggia c’era uno di noi, un collega, un amico. Il velo di cinismo che accompagna il lavoro del cronista, e ne fa un testimone utile proprio perché non sopraffatto dall’emotività, aveva lasciato il posto al dolore e alla rabbia, a un senso opprimente di ingiustizia.
Mi vergognavo di non averlo provato altre volte, quel sentimento. Ho riletto l’articolo di Fabio Felicetti, pubblicato il giorno dopo l’agguato in prima pagina sul Corriere. Un pezzo di rara tenerezza espressiva e nello stesso tempo asciutto e privo di retorica, quasi distaccato: descriveva quel corpo sbattuto sull’asfalto davanti al ristorante «Dai gemelli», come se lo dovesse toccare, sorreggere, quasi rianimare: la penna schizzata via dal taschino, l’ombrello caduto, la mano che sembrava ancora muoversi. Non dimenticherò di quelle ore convulse il pianto del direttore, Franco Di Bella, il dolore composto del suo vice Gaspare Barbiellini Amidei, il questore Sciaraffia che tentava di consolarli entrambi, la faccia impietrita di Angelo Rizzoli. Ma soprattutto gli sguardi smarriti dei tanti colleghi che erano accorsi lì, in via Salaino, una via sconosciuta, laterale, che poi per molti anni nessuno di noi avrebbe avuto più il coraggio di percorrere. Il direttore Di Bella era uomo duro, schietto, ma di straordinaria carica umana: sembrava aver perduto ogni forza. E ogni speranza. Come noi. Al funerale di Walter gridò la sua rabbia contro uno Stato che non sapeva difendere un suo cittadino. Ancora una volta, come tante volte. Eppure, non lo sapevamo e nessuno di noi lo immaginava, la lotta contro il terrorismo stava per essere vinta grazie ai tanti semi gettati con coraggio in una società provata e disillusa. Molti di quei semi erano nelle parole e negli articoli di Walter, come nei gesti e nell’opera silenziosa di tanti servitori dello Stato.
Il tempo, quel mercoledì, si era fermato all’improvviso. L’arrivo del padre di Walter, il suo urlo («Figlio mio») e il suo amorevole tentativo di nascondere alla nuora Stella la vista del corpo di Walter, ancora schiacciato contro il marciapiede: scene rimaste scolpite per sempre nella mia mente. La rappresentazione del dolore più profondo. Il calvario senza resurrezione. Ma l’immagine che mi è sembrata rappresentare di più la tragedia è quella di Walter ancora vivo, un po’ stanco, ma come sempre arguto e intelligente, la sera prima, al Circolo della Stampa di Milano a un dibattito sull’informazione e sul terrorismo. «È vero, c’è un imbarbarimento della società italiana che tocca tutti, ma sappiamo come nasce, e non possiamo meravigliarci ogni volta che ne scopriamo gli effetti... dobbiamo impedire che si propaghi». Walter parlava, citando Mario Borsa, direttore del «Corriere» nell’immediato dopoguerra, della libertà di stampa e della necessità che il pluralismo fosse garantito dalla corretta e aperta concorrenza fra gruppi editoriali. E aggiungeva: «Non è assolutamente sano in un Paese democratico che la politica si faccia nei palazzi di giustizia». Sono passati trent’anni, tutto è cambiato, ma le parole di Walter conservano una straordinaria attualità. La sua eredità morale e culturale rimane integra e viva. Intatta la testimonianza professionale di un cronista libero; fecondo il lascito di un pensatore riformista; profonda la scia di un cattolico impegnato nella società, desideroso di comprenderne le trasformazioni e di segnalarne con onestà e precisione le anomalie, i germi della violenza e del terrorismo.
Quella mattina, prima di sapere che era stato ucciso, una voce parlava di un portavalori ammazzato. Dopotutto, l’informazione non era errata, Walter è stato ed è il nostro portavalori. E che valori! A noi il compito arduo di custodirli senza retorica e amnesie.

Che la forza sia con voi!

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lunedì 24 maggio 2010

WEEK END

Da dove cominciare per raccontare questo fine settimana?

Da venerdi sera quando i mitici OFUDA si sono ritrovati (non tutti, a dir la verità: e questo è motivo sufficiente per calendarizzare un nuovo appuntamento)...OFUDA: sigla misteriosa, quasi da setta segreta o loggia massonica...in realtà un gruppo di amici affiatato che hanno trascorso insieme gli anni dell'adolescenza tra cazzeggi, scherzi, piccole (poche) e grandi (tante) avventure (chè è meglio, per ora, non raccontare: alcune di esse sfioravano davvero il penale...d'altra parte, tra noi, c'è stato persino uno che, munito del solo abbonamento - scaduto - dell'ACTV, una mattina è salito su un treno a Mestre ed è arrivato a....Basilea per tornare a casa 5 giorni dopo!))....e poco importa se, 25 anni dopo, la Vita ha lasciato in ognuno piccoli e grandi ferite da leccare, dolori, abbandoni...ciò che conta è che lo spirito sia sempre lo stesso, quello di sempiterni Peter Pan, di adulti che ancora sanno essere bambini...e le ore sono volate. D'altra parte basta continuare ad essere sè stessi e a porci sempre la stessa domanda "Ma ti si mato?" e a darci la stessa risposta "Sì so mato parchè?"... E' vero: Francesco (Guccini) ci ricorda che le osterie di fuori porta sono ancora aperte come un tempo ma, nel nostro caso, non è vero che la gente che ci andava a bere fuori e dentro è tutta morta. E se qualcuno è già dottore, si è sposato, fa carriera quella non è una morte un pò peggiore perché siamo rimasti sempre gli stessi. E allora: a Stefano, Nicola, Diego, Daniele, Gastone, Davide 1, Davide 2, Mauro...CHE LA FORZA SIA CON VOI!

Sabato sera: ho avuto problemni con questo blog nelle scorse settimane....ho dovuto farlo migrare (e non so cosa significhi di preciso) da altra parte (vien da pensare: se far migrare un blog è complicato, figurarsi far migrare le persone). Ho chiesto aiuto al mio fratellone il quale però, temo, abbia inserito un meccanismo perverso per cui ogni qual volta parlo della mia Inter accade qualcosa di "spiacevole"...e però, sabato sera, è stato trionfo. Vero, autentico. E a tutti NOI interisti, che soffrono da sempre di ciò che Beppe Severgnini chiama l'interismo: CHE LA FORZA SIA CON NOI!

Domenica: che dire? 10 ore di camminata, 1500 metri di dislivello lungo i "sentieri" di Mauro Corona...lungo il sentiero dei cavadori che comincia con un cartello scritto proprio da Mauro. Che recita (più o meno): questo è il sentiero che i cavadori ertani percorrevano tutti i lunedi ancora ciucchi dalla domenica, buon viaggio. Duro, durissimo. Ma la montagna è davvero metafora della vita: per arrivare in vetta devi stringere i denti, devi procedere passo per passo ma quando arrivi in alto, lassù, d'improvviso difficoltà e stanchezza sono dimenticate. A Silvano, Massimo e gli altri compagni di questa massacrante salita: CHE LA FORZA SIA CON VOI!

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venerdì 21 maggio 2010

IL CORAGGIO DELL'ONESTA'

Dal sito di Repubblica

"Non mi riconosco più nelTg1"


"Un giornalista ha un unico strumento per difendere le proprie convinzioni professionali: levare al pezzo la propria firma. Un conduttore, una conduttrice, può soltanto levare la propria faccia, a questo punto". E' questo uno dei punti centrali della lettera con cui Maria Luisa Busi ha annunciato l'intenzione di abbandonare la conduzione del Tg1 1. La missiva, tre cartelle e mezzo affisse nella bacheca della redazione del telegiornale, è indirizzata al direttore Augusto Minzolini e al Cdr, e per conoscenza al direttore generale della Rai Mauro Masi, al presidente dell'azienda Paolo Garimberti e al responsabile delle Risorse umane Luciano Flussi. Ecco il testo integrale.




"Caro direttore ti chiedo di essere sollevata dalla mansione di conduttrice dell'edizione delle 20 del Tg1, essendosi determinata una situazione che non mi consente di svolgere questo compito senza pregiudizio per le mie convinzioni professionali. Questa è per me una scelta difficile, ma obbligata. Considero la linea editoriale che hai voluto imprimere al giornale una sorta di dirottamento, a causa del quale il Tg1 rischia di schiantarsi contro una definitiva perdita di credibilità nei confronti dei telespettatori".

"Come ha detto il presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli: 'La più grande testata italiana, rinunciando alla sua tradizionale struttura ha visto trasformare insieme con la sua identità, parte dell'ascolto tradizionale".

"Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E' stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo.

E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perchè falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale".

"L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".

"Un giornalista ha un unico strumento per difendere le proprie convinzioni professionali: levare al pezzo la propria firma. Un conduttore, una conduttrice, può soltanto levare la propria faccia, a questo punto. Nell'affidamento dei telespettatori è infatti al conduttore che viene ricollegata la notizia. E' lui che ricopre primariamente il ruolo di garante del rapporto di fiducia che sussiste con i telespettatori".

"I fatti dell'Aquila ne sono stata la prova. Quando centinaia di persone hanno inveito contro la troupe che guidavo al grido di vergogna e scodinzolini, ho capito che quel rapporto di fiducia che ci ha sempre legato al nostro pubblico era davvero compromesso. E' quello che accade quando si privilegia la comunicazione all'informazione, la propaganda alla verifica".

Nella lettera a Minzolini Busi tiene a fare un'ultima annotazione "più personale": "Ho fatto dell'onestà e della lealtà lo stile della mia vita e della mia professione. Dissentire non è tradire. Non rammento chi lo ha detto recentemente. Pertanto:

1)respingo l'accusa di avere avuto un comportamento scorretto. Le critiche che ho espresso pubblicamente - ricordo che si tratta di un mio diritto oltre che di un dovere essendo una consigliera della FNSI - le avevo già mosse anche nelle riunioni di sommario e a te, personalmente. Con spirito di leale collaborazione, pensando che in un lavoro come il nostro la circolazione delle idee e la pluralità delle opinioni costituisca un arricchimento. Per questo ho continuato a condurre in questi mesi. Ma è palese che non c'è più alcuno spazio per la dialettica democratica al Tg1. Sono i tempi del pensiero unico. Chi non ci sta è fuori, prima o dopo.

2)Respingo l'accusa che mi è stata mossa di sputare nel piatto in cui mangio. Ricordo che la pietanza è quella di un semplice inviato, che chiede semplicemente che quel piatto contenga gli ingredienti giusti. Tutti e onesti. E tengo a precisare di avere sempre rifiutato compensi fuori dalla Rai, lautamente offerti dalle grandi aziende per i volti chiamati a presentare le loro conventions, ritenendo che un giornalista del servizio pubblico non debba trarre profitto dal proprio ruolo.

3) Respingo come offensive le affermazioni contenute nella tua lettera dopo l'intervista rilasciata a Repubblica 2, lettera nella quale hai sollecitato all'azienda un provvedimento disciplinare nei miei confronti: mi hai accusato di "danneggiare il giornale per cui lavoro", con le mie dichiarazioni sui dati d'ascolto. I dati resi pubblici hanno confermato quelle dichiarazioni. Trovo inoltre paradossale la tua considerazione seguente: 'il Tg1 darà conto delle posizioni delle minoranze ma non stravolgerà i fatti in ossequio a campagne ideologiche". Posso dirti che l'unica campagna a cui mi dedico è quella dove trascorro i week end con la famiglia. Spero tu possa dire altrettanto. Viceversa ho notato come non si sia levata una tua parola contro la violenta campagna diffamatoria che i quotidiani Il Giornale, Libero e il settimanale Panorama - anche utilizzando impropriamente corrispondenza aziendale a me diretta - hanno scatenato nei miei confronti in seguito alle mie critiche alla tua linea editoriale. Un attacco a orologeria: screditare subito chi dissente per indebolire la valenza delle sue affermazioni. Sono stata definita 'tosa ciacolante - ragazza chiacchierona - cronista senza cronaca, editorialista senza editoriali' e via di questo passo. Non è ciò che mi disse il Presidente Ciampi consegnandomi il Premio Saint Vincent di giornalismo, al Quirinale. A queste vigliaccate risponderà il mio legale. Ma sappi che non è certo per questo che lascio la conduzione delle 20. Thomas Bernhard in Antichi Maestri scrive decine di volte una parola che amo molto: rispetto. Non di ammirazione viviamo, dice, ma è di rispetto che abbiamo bisogno".

E conclude: "Caro direttore, credo che occorra maggiore rispetto. Per le notizie, per il pubblico, per la verità.

Quello che nutro per la storia del Tg1, per la mia azienda, mi porta a questa decisione. Il rispetto per i telespettatori, nostri unici referenti. Dovremmo ricordarlo sempre. Anche tu ne avresti il dovere".

Che la forza sia con voi!

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giovedì 20 maggio 2010

PANSAC

Mentre oggi pomeriggio (17,30; davanti al Municipio) si svolgerà la manifestazione a sostegno dei lavoratori, ecco i punti principali dell'accordo tra le parti siglato ieri pomeriggio e riguardante la pesantissima crisi della Nuova Pansac:
  1. L'azienda conferma il ritiro della procedura di mobilità e si dichiara disponibile ad avviare un confronto con le OO.SS (organizzazioni sindacali) sul Piano Industriale;
  2. Il Piano non contemplerà decisioni relative alla chiusura di siti, pur tenendo conto che su alcuni siti si registrano delle criticità;
  3. L'azienda avvierà le procedure per la richiesta degli ammortizzatori sociali e conseguentemente si avvierà la discussione al Ministero del Lavoro; l'Azienda esclude sin da ora il ricorso alla CIGS (Cassa Integrazione Speciale) per cessazione;
  4. Alla discussione presso il Ministero del Lavoro parteciperà anche il MiSE (Ministero per lo Sviluppo Industriale che, dopo le dimissioni di Scajola, è retto ad interim dal Presidente del Consiglio) al fine di verificare la congruenza degli obiettivi del Piano Industriale con gli ammortizzatori sociali;
  5. Entro le prossime settimane verrà convocato un incontro di verifica presso il MiSE.
Dunque si può tirare un sospiro di sollievo (momentaneo). A me rimane un dubbio: era necessario arrivare a questo punto? Era davvero necessario comunicare a 501 dipendenti che sarebbero stati licenziati? 
Ieri  su La Nuova Venezia, il bravo Francesco Furlan scriveva: C'è chi ritiene che l'accordo raggiunto ieri fosse da tempo il reale obiettivo dell'azienda e che l'avvio della procedura per i licenziamenti fosse non il fine, ma il mezzo per accelerare i tempi, su indicazione  delle banche ancora esposte per circa 180 milioni di euro. Come sarebbe altrimenti spiegabile - ci si interroga - un simile passo indiuetro?
Leggete con attenzione questo ultimo passaggio. Leggetelo con grande attenzione e, ditemi, se non c'è da incazzarsi veramente.

Che la forza sia con voi!

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mercoledì 19 maggio 2010

APPUNTAMENTO

LA COMUNITA’ MIRESE







SOSTIENE



I LAVORATORI DELLA NUOVA PANSAC



NELLA DIFESA DEI POSTI DI LAVORO



E DELL’OCCUPAZIONE







GIOVEDI’ 20 MAGGIO 2010



ORE 17.30







MIRA - PIAZZA DEL MUNICIPIO







Saranno presenti







· LE ORGANIZZAZIONI SINDACALI



· I LAVORATORI



· GLI AMMINISTRATORI



· LE FORZE POLITICHE







INSIEME, DIFENDIAMO IL DIRITTO AL LAVORO







PARTECIPA E FAI PARTECIPARE





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POETI

Edoardo Sanguineti se n'è andato ieri. Docente universitario, marito, padre di 4 figli, co - fondatore (insieme, fra gli altri, a Umberto Eco, Sebastiano Vassalli, Giorgio Celli, Furio Colombo, Angelo Guglielmidel Gruppo '63, una delle vere e autentiche avanguardie letterarie italiane, deputato e consigliere comunale (sempre tra le fila del PCI). Ma soprattutto poeta. E comunista. Vero e autentico.
Ho recuperato questa  intervista concessa - l'anno scorso - all'Unità....


La sinistra scomparsa: «C’è stata una generazione che ha voluto cancellare la storia in modo dissennato»

Il potere di Berlusconi: «Con le tv nasce un avveduto affarista che si è comprato l’Italia e fa di tutto per dominarla»

Il poeta e l’operaio: «Per me è cambiato tutto quando, giovane borghese, conobbi un vero operaio. Capii che era parte di un altro mondo. Quell’operaio aveva il fucile ed era un partigiano. Allora, a Torino, sono diventato materialista».



intervista di Pietro Spataro (l’Unità 12.04.2009)



In tv continuano a scorrere le immagini del disastro dell’Abruzzo. Le case sventrate, le chiese ferite, le bare allineate, gli sfollati spersi. «È terribile», dice Edoardo Sanguineti. «È terribile vedere come certi edifici siano finiti in briciole e abbiano portato la morte. Eppure dovevano essere garantiti dal rischio sismico...».
Si ferma un attimo poi aggiunge con tono polemico: «E davanti a questa grande tragedia c’è chi cerca di ricavare consenso dalle tende azzurre...». A Edoardo Sanguineti, poeta e saggista acuto e ironico, Berlusconi non è mai piaciuto e non lo nasconde. Non gli piace per niente, oggi, quella continua esibizione di sé tra le rovine dell’Aquila. Proprio il terremoto - il segno di questa Italia vulnerabile e sofferente - è il punto da cui partiamo per ragionare su di noi e sul futuro.



Allora, Sanguineti un disastro ineluttabile quello dell’Abruzzo?



«Non credo proprio. Diciamo che non c’è stato controllo. Come è stato possibile che l’ospedale, la prefettura, la casa dello studente siano venuti giù in quel modo? Come è possibile che chi era lì per studiare non abbia avuto la minima garanzia di sicurezza? Che fine hanno fatto le leggi sul rischio sismico? È tutto terribile e dimostra a che livello di degrado siamo arrivati. Meno male che di fronte all’emergenza almeno una certa risposta di solidarietà c’è stata...»



L’emergenza mostra sempre il lato migliore degli italiani. Ma secondo lei nella normalità l’Italia di oggi non è invece cinica e indifferente?



«Io direi che questa Italia è molto scoraggiata. È caduta ogni fiducia, ormai si dice solo “spendete e spandete”. Ma questo scoraggiamento va oltre i nostri confini. La globalizzazione infatti sta mostrando i suoi effetti perversi. C’è un mondo pieno di proletari che non sanno di esserlo e la coscienza di classe si è persa. Ormai la pratica sociale più diffusa è il mobbing».



Eppure solo qualche anno fa ci dicevano che il capitalismo era trionfante...



«E invece nel momento di massimo splendore il capitalismo entra in crisi. Ma attenzione, perché vedrete che reagirà e lo farà con durezza. Però, possiamo dirlo: aveva ragione Marx. Basta vedere come nelle nostre città si aggirano masse disperate e ricchi spaventosamente ricchi per i quali non ci sono limiti. Rileggere Marx, questo dobbiamo fare se vogliamo riorientarci. Dico Marx, ma anche Gramsci e Benjamin: credo possano ancora aiutarci».



Qualcuno dice che è fallito un modello, quello del consumismo. È d’accordo?



«Certo. Ormai siamo cittadini non più di una Repubblica fondata sul lavoro ma di una Repubblica fondata sulla concorrenza spietata. Quando il consumo è tutto la Costituzione può essere rovesciata come un guanto. È quel che dice il nostro premier».



Insomma ha vinto Berlusconi?



«Sì, ha vinto violando, tanti anni fa, le norme sulle tv. Lì è nato un avveduto affarista che costruisce il suo apparato di persuasione. La tv non serve più a insegnare a leggere e a scrivere come faceva il maestro Manzi, né a formare una coscienza critica. La tv si occupa di questioni di letto, di grandi fratelli. E allora Berlusconi diventa un modello. Appunto: è l’uomo che ricava consensi dalle tende azzurre del terremoto. Le tende azzurre sono il simbolo del berlusconismo. Si è comprato il paese e utilizza ogni mezzo per dominarlo: il suo è un modello nazional popolare».



Che arriva persino all’uso delle ronde contro gli immigrati...



«Anche le ronde sono espressione di un paese arcaico. Un paese che non è più in grado di sopportare la presenza di chi non è noto. Non si tollera lo straniero e allora si occupa il territorio. È un elemento spaventoso della nostra storia recente».



Un vero disastro. E la sinistra dov’è finita?



«E chi lo sa... La sinistra è scomparsa in tutte le sue forme. E non solo nei suoi tentativi di trasformazione dopo gli errori di Occhetto. C’è stata una generazione dissennata che ha lavorato per cancellare la propria storia. E Berlusconi infatti si presenta come il salvatore dal comunismo. All’opposizione dice: arrendetevi. Tutto questo fa impressione».



Insomma non c’è speranza?



«Ma no, mantengo sempre una disperata speranza nella sinistra. Ma devo dire che è sempre più flebile».



Qualche segnale positivo ci sarà pure. Per esempio, i ragazzi dell’Onda. O il sindacato. Non sono un po’ di luce in mezzo al buio?



«Il sindacato sì. La Cgil sì e non solo per la bella manifestazione del Circo Massimo. L’Onda invece no, assolutamente. Ho visto in quel movimento una spaventosa depoliticizzazione, non sanno proprio quel che vogliono. C’è solo tanto individualismo».



Per fortuna che c’è Obama allora. Persino Ingrao dice che è l’unica grande novità...



«Non sono d’accordo con Ingrao. Certo Obama mica è da buttar via, un nero alla Casa Bianca, o un abbronzato come dice qualcuno, è una novità. E ci sono elementi positivi nei suoi primi passi. Anche una certa spinta utopica. Il punto è: chi rappresenta e quali classi? Non dimentichiamo che l’America non ha mai conosciuto la lotta di classe».



E se invece Obama riuscisse laddove la sinistra ha fallito, cioè cambiare il mondo?



«È possibile, è possibile. Ma io non ci credo, non credo che l’America cambierà mai. Un paese nato con una Dichiarazione di Indipendenza così arcaica e conservatrice dove può andare? Per me Obama non è una speranza. L’unica speranza resta il comunismo».



Il comunismo è la sua ossessione...



«Ma che cosa c’è d’altro? Il mondo è precarizzato, l’uomo è ridotto a merce. Quando vai in banca ti rendi conto che chi ti serve dietro lo sportello è uno sportello. È un essere docile che obbedisce per salvarsi. Se questo è il mondo bisogna impegnarsi e non solo con le manifestazioni o con le notti bianche. Ho spiegato due anni fa, proprio in occasione di un compleanno di Ingrao, come si diventa materialisti storici, come ci sono diventato io...»



E come ci si diventa?



«Con gli operai. La mia storia di materialista comincia con un operaio. Per me, bravo ragazzo borghese, tutto è cambiato quando ho conosciuto un operaio per la prima volta. Eravamo in guerra, lui si è fermato e ho capito che era parte di un altro mondo. L’ho visto poi con il fucile in spalla il giorno della Liberazione: l’operaio era un partigiano. Abitavo a Torino, tutto è cominciato da lì».



Un verso della sua raccolta “Postkarten” dice: “la poesia è ancora praticabile probabilmente”. In un mondo così a che serve la poesia?



«Serve a scrivere poesie che guardano il mondo con ottica comunista. Guardano il mondo, lo raccontano, lo interpretano».



Qual è il poeta che ha capito meglio il carattere degli italiani?



«Sicuramente Dante anche se era un feroce reazionario. Lui ha capito che il mondo era cambiato, che la borghesia era in ascesa, ha capito che la storia aveva avuto una svolta irreparabile. Insomma ha capito meglio di altri il disordine del mondo».



Sanguineti, qual è il leader della sinistra a cui si è sentito più legato?



«L’ultima persona sana è stato Berlinguer. Poi certo la sua impresa è fallita. Ma è fallita perché sono arrivate le armi. Hanno rapito Moro, sono cominciate le sedute spiritiche e il progetto si fermò».



Quale lezione ha lasciato Berlinguer?



«Berlinguer diceva allora una cosa semplice e forte: far soldi non è lo scopo dell’esistenza. C’è ancora qualcuno che lo dice? Mi pare di no e infatti guardate dove siamo finiti».



Ancora comunista, ancora avanguardista: insomma fedele a se stesso?



«Una volta mi chiesero quale fosse la mia migliore qualità e quale il mio peggior difetto. Risposi: l’ostinazione. Mi ostino, come Berlinguer, a dire che non si vive per accumulare ricchezza e penso che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e non sul consumo. Qui invece ti dicono grazie solo perché consumi. E allora io ripeto: no grazie. E mantengo la mia ostinazione».



Ha descritto un quadro fosco: quindi è pessimista per il futuro?



«Userei questa espressione: ottimismo catastrofico. Certo che è un dovere essere ottimisti, come si fa. Però, devo essere sincero: non scommetterei un soldo sull’ipotesi che il mondo così com’è duri altri cinquant’anni. Forse ce ne andremo su Marte. Ma costa troppo, vedrete che non si farà».

Che la forza sia con voi!

P.S.


PURGATORIO DE L’INFERNO, 10 - di Edoardo Sanguineti


questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona



fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco



fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,



ci vedi il denaro:



questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada



del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae



Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,



è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,



è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi



il denaro:



e questo è il denaro,



e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri



con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette



di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:



ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente



Edoardo Sanguineti

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martedì 18 maggio 2010

COGITATIONES

Il Trentino-Alto Adige è come il villaggio di Asterix: l'unico al Nord sfuggito a Berlusconi e Bossi. In sedici anni mai una soddisfazione. Solo batoste. Gli ultimi rovesci a Bolzano (con il centrodestra sconfitto al primo turno) e a Merano e Rovereto, dove i candidati della destra non sono arrivati nemmeno al ballottaggio, con grave scorno di Michaela Biancofiore, la pupilla del Cavaliere, che a Merano aveva puntato tutto su una donna, Claudia Benedetti, battuta da una verde, Cristina Kury. A Bolzano, feudo della destra etnica, il Pdl ha presentato un candidato di lingua tedesca, Robert Oberrauch, votandosi al suicidio. Da questa terra ostile Berlusconi si tiene da sempre alla larga. A Trento è venuto una sola volta, nel remoto 1998. Dell'ultima visita a Bolzano ricordano soprattutto il dito medio alzato durante un comizio in piazza (con la Biancofiore ilare sottobraccio). Com'è possibile? E' sempre Profondo Nord, ma non è Padania. Qua dipendenti pubblici (13mila per la sola provincia di Trento), casse rurali e coop bianche, turismo; là, nella pedemontana verde, capannoni e piccole e medie imprese. S'è creato negli anni un blocco sociale che tende a premiare chi difende l'autonomia, come il centrosinistra, che con Prodi provincializzò scuola e centrali idroelettriche nell'asse strategico tra il partito di raccolta sudtirolese e il Pd. Nemmeno la Lega ha mai sfondato, perché la Svp e i partiti autonomisti insistono sullo stesso terreno. Ma forse c'è una ragione culturale che le riassume tutte: il berlusconismo non piace come modello antropologico. Ritrosia montanara, sobrietà, solidarismo cattolico semplicemente stridono con il vitalismo populista del Cavaliere.
Così Concetto Vecchio su Repubblica di oggi a commento del risultato elettorale in Trentino. Se guardo a questo risultato e ci "sovrappongo" quello veneziano, quali conseguenze trarre?
Due a me pare.
La prima: il PD deve sempre più orientarsi alla inclusione e non alla esclusione. Su Facebook, una miriade di commenti ad un post di Stefano Saoncella. Due quelli interessanti. Il primo, di un ragazzo militante del PD e proveniente dall'ex Margherita che scrive (più o meno) sono stanco che gli altri ci considerino ex democristiani. Il secondo, quasi in controluce al primo, specularmente opposto. Di una ragzza, militante del PD ma provenendo dagli ex DS. Che scrive (più o meno) sono stanca che gli altri ci considerino ex ds. Ebbene: credo che alla fine l'errore fondamentale del PD sia esattamente questo. Il fatto cioè che ognuno consideri l'altro non come risorsa, non come "nuovo" (nel senso di portatore di idee nuove) ma ex. Ex di qualcosa.  Se prima erano i partiti di appartenenza, ora - magari, chissà - sono le mozioni congressuali a dividerci. In politica, c'est vrai, non esistono (non dovrebbero esistere) "nemici" ma avversari. Ebbene: il mio avversario non è chi milita nel mio partito e che - magari, chissà - ha sostenuto una mozione diversa dalla mia. No! Il mio avversario è un centrodestra che è portatore di una visione antropologica e sociologica della realtà diversa dalla mia. A Venezia non vinciamo perché la maggioranza dei candidati era di "area democratica" (mozione Franceschini) ma perché Giorgio Orsoni ha saputo mettere attorno ad una piattaforma programmatica un ampio schieramento! Qui non è in gioco il futuro dei bersaniani, dei franceschiniani, dei mariniani. Qui è in gioco il futuro del Partito! Di un Partito che è, sostanzialmente, da 2 anni in congresso. Due anni! E che, ancora oggi, si arrovella su norme statutarie  e regolamentari. Ed intanto Tremonti annuncia una manovra da 30 miliardi di euro, pari a quella che fece Prodi per farci entrare in zona - euro!
La seconda. Se il PD deve includere e non escludere, cominciamo a dare esempio di coerenza e compattezza. C'è chi mi fa notare che sul tema "lavoro" esiatano 7 (sette!) disegni di legge presentati dal PD. Ma, dico io, nemmeno su un argomento così delicato risuciamo a portare a termine un lavoro collegiale?

Che la forza sia con voi!

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lunedì 17 maggio 2010

TANTI TITULI

Beppe Severgnini, dall'edizione odierna del Corriere


Pentacampioni! Suona bene, mi piace. All’ultimo respiro, stavolta: c’è più gusto. Cinque scudetti di fila, da 75 anni, non li vinceva nessuno. In totale sono diciotto. Uno più del Milan, e non possiamo dire che la cosa ci addolori. Qualcuno ora dice: eravate più simpatici prima! Ovvio, ma è una qualità cui rinunciamo volentieri. C’è una simpatia che scivola nella compassione; e noi l’abbiamo rischiata, anni fa. Così esiste un’antipatia che confina con l’arroganza. E quella dobbiamo evitarla, è lo stile di qualcun altro.




Esiste una fisiologia e una patologia dei sentimenti. L’Inter ha già ottenuto una rarissima doppietta— campionato e Coppa Italia— contro una fantastica Roma, senza la quale sarebbe stata una stagione da sbadigli. E sappiamo che sabato sera siamo di nuovo tutti impegnati. Com’è possibile che la nostra gioia non susciti un po’ d’invidia, e l’invidia cerchi le sue giustificazioni? José Mourinho, per esempio? Sarebbe lui il generatore d’antipatia? Ma quando mai! L'avete visto ieri a Siena? Commosso e con gli occhi lucidi. Va be’, dopo un’ora ha trovato il modo di ricordare che gli avversari, una volta ancora, vanno in vacanza con «zero tituli». Ma che ci volete fare? Il Comandante Mou è un timido-aggressivo, come lo fu Mancini in nerazzurro. Ma, a differenza di Mancini, Mourinho è diretto: se deve dire una cosa, la dice. Ranieri è meglio? È come dire che Hugh Grant è meglio di Russell Crowe: bravi tutt’e due, ma interpretano personaggi diversi. O invece sono i giocatori dell’Inter a risultare antipatici?



Alcuni li conosco, altri me li sono studiati. A me sembrano ragazzi a posto e atleti ammirevoli. Ieri hanno avuto paura (tutti meno Balotelli, che non teme neanche il demonio): il Siena ci ha messo una grinta che il Chievo s’è ben guardato dall’esibire (dico, ma l’avete visto Rosi?). Poi, quando l’ansia stava arrivando al livello di guardia, capitan Zanetti s’è infilato in area e ha messo la palla magica sul piede del principe Milito. Altro che arroganza: i due sono monumenti internazionali all’umiltà e alla serietà. Insieme a Cambiasso, quello che Masomaradona non porta in Sudafrica.



Oppure è Moratti che non si fa amare? Ma se gliene hanno dette e fatte di tutti i colori, per anni! L’uomo che non sa di calcio, il miliardario pollo e spendaccione, il membro poco furbo della famiglia, e via carogneggiando. Dal ’95 al 2005 ha imparato il mestiere, mentre intorno a lui trafficavano in modo indegno. Da cinque anni vince, con una programmazione che andrebbe studiata nelle Università: insieme a Branca e Oriali ha scovato Maicon e Julio Cesar, ripescato Cambiasso e Sneijder, resuscitato Samuel e Lucio, cresciuto Balotelli, valorizzato Milito, Thiago Motta ed Eto’o. Sarebbe questo, il ricco incompetente? Ho capito: siamo noi interisti a essere antipatici. Perché, da qualche anno, vinciamo? Se fosse così, ditecelo subito. Siamo disposti a continuare, antipaticamente, così.



PS: la chiamate antipatia. Ma non è, piuttosto, invidia?



Beppe Severgnini

sabato 15 maggio 2010

prova

prova tecnica