sabato 28 agosto 2010

THAT'S ALL FOLKS !

Da Il Corriere della Sera

La madre butta via i Gundam

Lui (ormai trentenne) incendia la casa
 
TOKYO - Ha dato fuoco alla casa perché la madre aveva buttato i suoi robot. È successo in Giappone, Kasai, nella zona centro-occidentale dell'isola, e non si tratta di un baby-piromane, ma di un uomo di 30 anni infuriato perché la madre aveva rimosso circa 300 riproduzioni in miniatura di Gundam, protagonista di una serie di cartoni animati cult negli anni '70, dagli scaffali della stanzetta.

SUICIDIO - L'incendiario ha spiegato di aver in «questo modo «cercato la morte» insieme ai modellini. Secondo quanto emerso nel processo a suo carico, l'uomo è accusato di aver sparso olio per la stufa nella sua stanza, e aver intenzionalmente appiccato il fuoco con un accendino riducendo in cenere l'intera casa, divisa su due piani, nell'agosto dello scorso anno. La madre, tuttavia, non si era disfatta dei robot, ma li aveva riposti facendo le pulizie della stanza. L'accusato ha spiegato il folle gesto adducendo sentimenti di «rabbia verso la famiglia» per non essere stato compreso. «I modellini erano parte del mio corpo e della mia anima - ha dichiarato tra lo sconcerto generale -. Quando li guardavo, sentivo tornare la forza necessaria per recarmi al lavoro il giorno seguente, indipendentemente da quanto fossero onerose le mie mansioni».

Che la forza sia con voi!

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venerdì 27 agosto 2010

DI LIBRI, DI POLITCA (E DI STORIA)/2

Il traning autogeno prima dell'ingresso in libreria ha avuto parziale successo. Sì, è vero: dovevo acquistare UN solo libro (quello di Scola) ma alla fine son riuscito a limitarmi ad acquistarne due. Il secondo è stato un volume, uscito quest'anno per i tipi (ancora!) della Mondadori. Si intitola Gli anni della peggio gioventù. A scriverlo Giampiero Mughini che molti conosceranno per la sua (per me insana) passione juventina e per essere televisivamente molto presente nelle trasmissioni sportive Mediaset. In realtà Mughini è questo ma è soprattutto giornalista (ignobilmente espulso dall'Ordine dei giornalisti un paio d'anni fa!) eclettico, dalla penna leggera e dal vocabolario prezioso frutto, immagino, dei suoi studi di filologia romanza oltre che della sua passione bibliofila (cui ha dedicato un gran bel libro titolato Il collezionista, d'altra parte è uno dei pochi ad essere in possesso della preziosissima edizione prima de I canti orfici di Dino Campana che io - da anni - cerco peggio del Sacro Graal; sullo stesso tema non perdetevi però Il vizio di leggere di Vittorio Sermonti, edito nel 2009, da Rizzoli). In pieni anni di piombo sono quattro le date ispiratricie motivanti il libro di Mughini.
12 dicembre 1969: una bomba scoppia all'interno della sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura in Piazza Fontana causando la morte di 17 persone ed il ferimento di altre 88 (si legga Gianfranco Bettin, Maurizio Dianese, La strage, che Feltrinelli pubblicò una decina d'anni or sono).
13 dicembre 1969: la polizia ferma 84 sospetti. Tra questi Giuseppe Pinelli, anarchico e ferroviere (e a me la sua figura ha sempre fatto venir in mente La locomotiva di Francesco Guccini che nulla c'entra con questa vicenda richiamando piuttosto la figura di un vecchio anarchico emiliano le cui gesta Guccini sentiva raccontare, in gioventù, dagli anziani della sua Pàvana),41 anni, viene fermato - insieme ad altre decine di persone - dalla polizia.
15 dicembre 1969: Pinelli, dopo un interrogatorio durato giorni, si trova all'interno di una stanza al quarto piano della Questura di Milano quando, alle 23,57, apre una finestra e si butta giù; soccorso arriverà all'Ospedale Fatebenefratelli già morto; è assodato che in quella stanza oltre a Pinelli c'erano anche alcuni poliziotti.
17 maggio 1972: il commissario Luigi Calabresi (la cui causa di beatificazione, da parte della Chiesa, è stata avviata tre anni fa) viene assassinato; da mesi era al centro di attacchi veementi da parte di Lotta Continua che lo riteneva responsabile della morte di Pinelli. Al termine di un dibattimento processuale complicatissimo e contorto, sufficientemente contraddittorio (assoluzioni, colpevolezze, assoluzioni) scaturito dalla confessione di un pentito Leonardo Marino che si autoaccusa di essere uno dei killer del commissario, Ovidio Bompressi (graziato dal Presidente Napolitano), Giorgio Pietrostefani (attualmente in Francia) e Adriano Sofri (che sulla vicenda ha pubblicato da Sellerio La notte che Pinelli) vengono condannati a 22 anni di carcere. Tutti e tre da sempre si professano innocenti. Sofri, uomo dotato di raffinata intelligenza, ottimo giornalista, ha trascorso 8 anni di carcere (attualmente è ai domicialiri anche in virtù delle sue precarie condizioni di salute) a Pisa e si è sempre rifiutato di chiedere la grazia perché, per lui, avrebbe significato una sorta di ammissione di colpevolezza.. Recentemente si è assunto la "corresponsabilità morale" per quanto accaduto al commissario Calabresi (il cui figlio, Mario direttore de La Stampa, ha pubblicato presso Mondadori, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo) dichiarando a Il Corriere della Sera:
"Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, "Calabresi sarai suicidato"
Ecco: questa è la location in cui Mughini affronta la vicenda Calabresi. E non lo fa con sguardo distaccato. Come è giusto che sia per un libro scritto da chi in Lotta Continua ha militato (e non era l'unico: Gad Lerner, Paolo Liguori) e guarda a quella esperienza con gli occhi di chi, oggi, può trarre un bilancio di quelli che erano davvero gli anni peggiori.

Che la forza sia con voi!



P.S.:  capito il fascino grande della lettura? Si comincia a parlare di un libro. E da questo ne richiami almeno 6.....Anzi, 7: perché questo concetto è espresso da un bellissimo di dialogo tra frate Guglielmo e Adso ne Il nome della Rosa di Umberto Eco!

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EDITORIALE

Da Il Corriere, di Beppe Severgnini


Il coraggio di costruire


Le nazioni, le famiglie e le squadre di calcio provano nostalgia per il passato prossimo. Hanno l’impressione che, prima, tutto andasse bene. Se non proprio bene, comunque meglio. L’Italia non fa eccezione. Dopo un’estate meteorologicamente incomprensibile e politicamente cattiva, dove la mondanità ha i sorrisi da Photoshop e il tormentone è la battuta di due ragazze sulla spiaggia di Ostia, è normale guardare indietro con rimpianto. Non siamo solo ripetitivi: siamo bloccati. Litighiamo per le stesse cose, nello stesso modo, con le stesse persone. L’Italia non è stata mai perfetta. Ma quasi sempre era un’imperfezione ottimista.




Nell’estate 1960 le Olimpiadi di Roma segnavano la consacrazione di un Paese che ce l’aveva fatta: quindici anni dopo una sconfitta umiliante, l’Italia faceva registrare un aumento del Pil — si tenga saldo, ministro Tremonti — del 8,3%. Mina cantava «Il cielo in una stanza» e quella stanza si poteva affittare: lo stipendio di un operaio era di 47 mila lire al mese e un giorno di pensione sull’Adriatico costava 600 lire. A Roma, quell’estate, si svolsero le Olimpiadi. David Maranis, premio Pulitzer, scrive: «Furono i Giochi che cambiarono il mondo ». Sponsorizzazioni e televisioni, russi e americani, spie e competizioni, doping e rivoluzioni, gli occhiali da sole di Livio Berruti, i piedi nudi di Abebe Bikila e la sfrontatezza di un pugile diciottenne, Cassius Clay, il futuro Mohammed Ali, la prima pop star sportiva della storia. E l’Italia era lì, tramonti romani e gente in festa, teatro di tutto questo.



Non era il paradiso. Era il solito purgatorio: ma le anime, allora, sognavano. Nel 1960 transitarono ben tre governi — Segni 2, Tambroni 1, Fanfani 3 — ma i politici, mentre litigavano, facevano: leggi, case, autostrade. Migrazioni interne, idee nuove, il cardinale Ottaviani che attaccava i socialisti «novelli anticristi». Neppure i drammatici scontri di Genova — centomila manifestanti contro il congresso del Movimento sociale italiano — riuscirono a cambiare l’umore nazionale, raccontato da Gabriele Salvatores nel suo film «1960» attraverso immagini televisive del tempo (sarà fuori concorso il 5 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia).



Il buonumore delle nazioni è una cosa seria. Non dipende solo dal fatto di vivere in tempo di pace: questa è una fortuna di cui godiamo da tempo, ma l’apprezza solo chi ha più di settant’anni, e ricorda la guerra in casa. L’umore nazionale non è neppure soltanto una questione di potere d’acquisto. Da cosa dipende, allora? Semplice: dalla sensazione d’essere dentro una storia che va avanti.



Senza questa capacità narrativa, una comunità non vive: sopravvive. Magari si diverte, spende e spande per mascherare incertezza e delusione. Ci sono abitudini italiane che hanno l’aria d’essere tattiche consolatorie. Penso alle ubique allusioni sessuali (pubblicità in testa), non seguite da un’altrettanto strabiliante esuberanza sessuale; all’ossessione per qualsiasi gadget o al fatto che metà dei maschi adulti siano diventati gourmet, gli altri ciclisti e giardinieri (la libido prende strade strane).



L’Italia del 1960 si sentiva una protagonista in cammino. I genitori faticavano pensando: i nostri figli staranno meglio. Nell’Italia del 2010 sappiamo tutti — padri, madri, figli — che la nuova generazione precarizzata starà peggio, e già ha bisogno di aiuto (per la macchina, per la prima casa). È un ribaltamento innaturale: la nazione che lo accetta è nei guai.



Che la forza sia con voi!

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giovedì 26 agosto 2010

DI LIBRI, DI POLITICA (E DI STORIA)/1

Ieri (dopo un accurato traning autogeno per cercare - inutilmente; da qui il numero dopo il titolo -  di sfuggire alla sindrome da acquisto compulsivo che mi assale ogniqualvolta vi entro) sono andato in libreria. Obiettivo: acquistare il recentisismo (è uscito lunedì) libro (edito da Mondadori) del Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia: Buone ragioni per la vita comune. Religione, politica, economia. Scola, che è stato docente di Antropologia Teologica (che a me pare un dolcissimo ossimoro), è intelligenza fascinosa oltre che uomo dalla solidissima biblioteca e dalla rigorosa impostazione dottrinale e dunque pastorale. Ma non solo. E' lettore particolarmente attento (anche se i risultati cui arriva possono non essere talvolta condivisibili) della realtà che lo circonda ed in cui vive. E soprattutto è strenuo portatore di una idea precisa di laicità cui è profondamente coerente. In occasione della Festa del Redentore è solito rilasciare ad Aldo Cazzullo una lunga intervista (ne è venuto fuori anche un libro La vita buona edito - nel 2009 - da Il Messaggero) in cui anticipa i temi che tratterà durante la sua omelia in occasione della Messa solenne celebrata . Fu in una di queste occasioni che parlò per la prima volta del caratterizzarsi della società contemporanea come di un meticciato di civiltà, categoria che - nel suo pensiero - mi appare la più capace di leggere e di suggerire piste di comprensione e di accompagnamento critico del processo  in atto; meticciato di civiltà come uno dei possibili nuclei fondanti della laicità, insomma.
Ad una prima e superficiale (la penna del Cardinale non è affatto lieve così come affatto lievi sono i temi che tratta) lettura, Buone ragioni per la vita comune rappresenta - di fatto - la summa non solo del pensiero ma anche dell'azione di Scola. Di un Cardinale che, ad esempio, ha istituito una fondazione - Oasis - dedicata al dialogo interreligioso tra cristianesimo ed islamismo; che ha rivoluzionato il panorama dell'offerta scolastica cattolica con l' Istituto Giovanni Paolo I : un percorso di studi che potenzialmente accompagna le nuove generazioni dalle scuole dell'infanzia fino al Liceo per concludersi - col Marcianum (altra sua "creatura") - con la Laurea. In esso infatti è racchiuso e declinato il pensiero -  caro a Giovanni Paolo II - che una fede che non diventi cultura sarebbe non pienamente accolta, non interamente pensata, non intensamente vissuta. Una fede matura, dunque, è una fede culturalmente completa; confine insormontabile tra testimonianza (l'appartenza ad una fede religiosa, quella cristiano - cattolica in particolare) e militanza (l'appartenennza ad una fede politica). Ed una fede culturalmente completa è una fede che si interroga - perché ne possiede le chiavi interpretative - su tutti gli aspetti del vivere civile. E per ciò stesso è testimonianza di una Chiesa che non può essere accusata di "ingerenza" nella vita pubblica del Paese proprio perché in questa sua curiosità globale vi è il fondamento di ciò che il Patriarca definisce una amicizia civile tra testimonianza e militanza.

Che la forza sia con voi!

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mercoledì 25 agosto 2010

MONDADORI

Da http://networkedblogs.com/77BXt di Sandrone Dazieri (uomo di sinistra e collaboratore Mondadori, nella foto di Rossella Rasulo)



ADR: A domanda rispondo. Il CASO MONDADORI



Visto che è ripartito un nuovo flame sulla questione pubblicare con Mondadori, un mio amico giornalista che preferisce rimanere anonimo mi ha fatto la seguente intervista che apparirà, corredata di foto di me che me le pesto come Tafazzi, sul settimanale “LA BRESAOLA ILLUSTRATA”. Così rispondo a tutti quelli che in questi giorni mi hanno scritto o telefonato chiedendomi cosa fai, e cosa non fai.

Domanda: Ciao Dazieri. Stai pensando di lasciare la Mondadori?



SANDRONE: No.



D: E non hai problemi a pubblicare per la casa editrice di proprietà di Berlusconi?



S: No. Ho problemi che Berlusconi sia il presidente del Consiglio. Purtroppo la maggior parte dei votanti l’ha scelto, anche se io non ero tra quelli.



D: Puoi però smettere di lavorare per lui.



S: Potrei anche lasciare questo paese perché è governato da lui, ma lo farà quando la redazione di Repubblica andrà in clandestinità sulle montagne.



D: Dai, non buttarla subito in vacca…



S Ok, allora ti dico che sono estremamente convinto che vadano giudicati i libri, non gli scrittori. Chissenefrega se Marx si scopava la serva se ha scritto il Capitale? Ma se dobbiamo giudicare anche gli scrittori, che sia in base a quello che scrivono.



D: Quindi non conta dove pubblicano secondo te.



No. Ho anche difeso pubblicamente Paolo Nori perché aveva accettato di scrivere su Libero. Leggiamo quello che scrive, dicevo. Può scrivere quello che vuole? E’ influenzato dal suo editore o no? Poi non so come sia finita perché non compro Libero... In effetti, adesso che ci penso, avrei dovuto farlo.



D: Quindi tu separi la tua identità di cittadino da quella di scrittore?



S: No, la mia identità da quella del mio editore. Come scrittore mi sono sempre fatto portavoce delle mie istanze di cittadino. Ho approfittato del poter parlare in pubblico e di essere ascoltato per esprimermi e prendere posizione. Contro la Bossi Fini, per la rimozione dei poliziotti responsabili delle violenze di Genova, contro i centri di detenzione per immigrati. Ma sono tematiche che normalmente non finiscono in prima pagina. Di solito lì ci finiscono le case di Fini e le zoccole di Berlusca. Chissà perché.



D: Stai andando fuori tema.



S: Ti pareva…



D: Vito Mancuso, autore Mondadori, ha dichiarato di essere entrato in profonda crisi. Non sa se pubblicherà ancora per i tipi di Segrate.



S: Vito è una brava persona, lo apprezzo come scrittore, mi sta simpatico e io rispetto le sue posizioni. Non per questo le condivido.



D: Altri tuoi colleghi stanno meditando di andarsene o manifestano un forte disagio.



S: Conoscendone bene alcuni… bah… lasciamo stare.



D: A chi ti riferisci?



S: Non te lo dirò e neanche se hanno rilasciato dichiarazioni oggi o ieri o un mese fa. Ma sto in questo ambiente da quindici anni, più o meno. Devi vedere che gente, che facce, che pelo sullo stomaco… Ma a parte questo, c’è una mistificazione di fondo.



D: Quale?



S: Quella che lascia intendere che esistano capitalisti buoni, con i quali è etico collaborare, e capitalisti cattivi, che i puri di cuore devono tenere alla larga. Invece io credo che esista semplicemente un sistema capitalistico, in cui le logiche sono sempre le stesse. Poi un riccastro ti può stare più o meno simpatico, ma sempre riccastro rimane.



D: Ma non tutti possono farsi leggi ad hoc, come questa che la Repubblica chiama ad Aziendam.



S: Che poi sarebbe una sorta di mega condono fiscale.



I: Esatto. Non ti disturba?



S: Certo che mi disturba. Come mi disturba che ogni volta i riccastri si facciano fare mega sconti dal fisco. Ti accertano che devi venti milioni di euro, alla fine ne paghi due. Mentre se sei un poveraccio normale vengono a pignorarti anche il buco del culo. Fidati che non sarà solo la Mondadori a usare la nuova legge.



I: Non credi che esista un conflitto di interessi?



S: Certo che esiste. Quando vincerà l’opposizione, speriamo prima della nuova glaciazione, magari si ricorderà di fare una legge che sistemi la questione. L’ultima volta si è dimenticata. E già che c'è potrebbe anche cambiare leggi come la Cirielli e la legge Bavaglio. E la Bossi- Fini. Ma fino ad allora, non è che la situazione migliorerà se gli scrittori di sinistra escono dalla Mondadori cantando l’Internazionale. Meglio se continuano a scrivere e a parlare liberamente, invece.



D: Quindi non credi che ci si possa cessare di prestare la propria opera a un’azienda per motivi morali o etici.



S: Quando manifestavo contro le fabbriche di armi o le centrali nucleari chiedevo ai lavoratori di rifiutarsi di produrre bombe o radioattività. Ma i libri, a differenza delle bombe, fanno solo del bene. Anche quelli brutti come i miei. E mentre un proiettile ti arriva anche se non vuoi, nessuno costringe a comprare i libri.



D: Infatti già molti lettori dicono che boicotteranno i libri a marchio Mondadori.



S: Il boicottaggio è un arma nobile e non violenta. I consumatori americani la usano benissimo per far cambiare le politiche delle aziende che prendono di mira. Ma perché funzioni occorrono obiettivi chiari. Per esempio: vogliamo che la tal azienda cambi la politica nei confronti delle minoranze o che smetta di discriminare gli omosessuali, o che investa qui e non investa lì. Alla Mondadori cosa chiedi? Di mandare via Berlusconi o quelli di sinistra?



D: Diranno che hai il cuore a sinistra e il portafoglio a destra.



S: Lo dicono da quando ho pubblicato il primo libro fuori dall’autoproduzione. E che ci posso fare? Meglio che il contrario.



D: Dici?



S: Se fosse vero, se fosse solo una questione di soldi… bé, dalla Mondadori sarei andato via da un pezzo. Sai quante rotture di palle in meno? Tutte le volte che presento, ci sono quelli che mi guardano e si aspettano che chieda scusa perché pubblico a Segrate. e poi mi dicono "Tu sei simpatico, ma la tua casa editrice..." "Guarda, mi tocca rispondergli, a me di essere simpatico non mi frega un cazzo. Mi frega che tu legga quello che scrivo e che ti piaccia". Ecco, quello che succede. Mi ricordo che a Ischia c'era 'sto tizio, chiaramente un villeggiante granosissimo firmato anche nelle ciabatte, che mi ha dato del venduto. Tu che eri dei Centri Sociali, mi ha detto, come se lui ci avesse mai messo piede in vita sua. O avesse mai letto un mio libro. E chissà che fa lui nella vita? Il pastore valdese? No, non c'entrano i soldi. Io non sono una star o il figlio di qualcuno che conta. I soldi li prendo per quello che vendo, e più o meno venderei lo stesso con qualunque grossa casa editrice.



D: E invece?



S: Invece rimango alla Mondadori perché mi piace lavorare con quei brutti ceffi di editor e direttori che stanno lì - Turchetta, Franchini, Brugnatelli, Giorgi, Anzelmo ecc- che penso siano i migliori sulla piazza. E sono amici, gli voglio bene, anche se siamo su pianeti distanti. E poi perché mi piace il suo catalogo e il fatto che sia generalista: pubblica di tutto, da D’Alema a Veneziani. E nessuno mi ha mai rotto le palle perché sono di sinistra. A parte quelli di sinistra, ovviamente. Ma fuori da lì.


Che la forza sia con voi!

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martedì 24 agosto 2010

SULLA COSTITUZIONE

C'è un che di irriguardoso ed irrispettoso - io credo - nel definire formalismi le norme e i principi della nostra Costituzione. Una Costituzione che ancorché debba necessariamente essere aggiornata è probabilmente una delle migliori costituzioni al mondo. Come si fa a definire formalistico (sebbene in senso lato) un principio contenuto in una Carta su cui giura il Presidente del Consiglio dei Ministri il quale, davanti al presidente della Repubblica, giura di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione ?
Quella che si aprirà a settembre sarà una crisi di governo estremamente pericolosa. Perché, per essere consumata (al di là del risultato finale), abbisognerà di tempi lunghi, lunghissimi. Nessuno, ad oggi, sembra "pronto" alla campagna elettorale. Non Fini che il suo partito lo dovrà strutturare e radicare. Non il PdL sempre più alle prese con quell'ingombrante alleato che va sotto il nome di Lega Nord. Non l'API di Rutelli. Manco che manco il PD alle prese con la bella iniziativa lanciata da Bersani per settembre. Tempi lunghi, dunque.  Diceva bene, ieri sera ai microfoni di Linea Notte (Rai 3), il mirabile Oscar Giannino ( qui il suo blog)   : credo che ad un operai che oggi è ritornato al lavoro o che a quanti oggi sono in difficoltà, interesserebbe che la politica si occupi di cose più serie.
Sarà crisi lunga e dall'esito probabile di tornare alle urne. La distanza tra il presidente del Consiglio e quello della Camera dei Deputati appare difficilmente colmabile. Umberto Bossi teme che la Lega rimanga isolata per le tentazioni centriste di Berlusconi. Berlusconi sa benissimo che questo logoramento interno sta influenzando molto il suo elettorato. Ovviamente nessuno, in questo momento, accetterebbe l'ipotesi di un governo tecnico: lo stesso Franceschini con grande lucidità ha parlato di elezioni per dare vita ad una Assemblea Nazionale. E però quel che accadrà in futuro dovrà necessariamente essere preceduto da quel che prevede la Costituzione. Se sarà coerente alle sue ultime dichiarazioni, nel caso in cui il govenro di centreodestra non dovesse avere una ampia maggioranza, Berlusconi rassgenerà nelle mani di Napolitano le sue dimissioni. A quel punto il Presidente della Repubblica ha il DOVERE di verificare l'esistenza in Parlamento di una maggioranza. Solo esperito questo passaggio, nel caso in cui tale maggioranza non ci fosse, Napolitano potrebbe esercitare quanto previsto dall'articolo 88 della Costituzione che riconosce solo e soltanto al Presidente della Repubblica (indipendentemente dall'oggettiva costatazione che gli elettori, seppure indirettamente, hanno indicato - col loro voto - Belrusconi come premier ma siamo in una Repubblica parlamentare e non presidenzialista) il potere di scioglimento delle Camere - sentiti i loro presidenti - o di una di esse. 
Piaccia o meno questo e solo questo è il dovere del Presidente della Repubblica. Non formalismo ma semplicemente rispetto delle reogle.
Che la forza sia con voi!

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lunedì 23 agosto 2010

TRAGICOMMEDIA

Così stamane Paolo Franchi (le evidenziature sono mie) ne Il Corriere della Sera

LA COMMEDIA DEL PD TRA COTA E TOGLIATTI

E’ mai possibile mettere in relazione, seppure nella forma più indiretta di questo mondo, Roberto Cota e Palmiro Togliatti? Fino a qualche giorno fa avremmo giurato di no.
Adesso, nostro malgrado, dobbiamo ricrederci.
Neanche questa ci è stata risparmiata. Pagheremo caro, pagheremo tutto.
II presidente del Piemonte, si sa, non è stato invitato alla Festa democratica che sta per cominciare a Torino, ufficiosamente per tenerlo al riparo da possibili contestazioni, visti i ricorsi che pendono sulla sua elezione.
Giulio Tremonti, Roberto Calderoli e Roberto Maroni hanno preso la palla al balzo per annunciare, per protesta, anche il loro forfait.
Ma, quel che è peggio, la decisione crea trambusto anche nel Pd. Sergio Chiamparino l`ha contestata duramente, sostenendo che getta un`ombra sulla credibilità del partito specie in caso di elezioni, e provocando le ire di Nicola Zingaretti che lo ha accusato di subalternità alla destra. Piero Fassino ha criticato aspramente il gran rifiuto dei tre ministri, sì, ma prima ancora la scelta di non convocare il governatore, augurandosi che si riesca a correggerla in fretta e ricordando che della legittimità dell`elezione di Cota si devono occupare il Tar e il Consiglio di Stato, non gli organizzatori di una festa di partito per tradizione e per vocazione apertissima al confronto.
Una polemica oziosa, come la maggior parte delle polemiche che ci affliggono? Sicuramente sì. Proprio per questo, però, si fatica a capire perché il Pd, anche a prendere per buona la versione lasciata trapelare, abbia provveduto con tanta solerzia a scatenarsela addosso. È vero che spira forte il vento delle elezioni anticipate.
Ma, se c`è da confrontarsi, anche aspramente, sullo spirito (una volta si sarebbe detto: sulla linea) con cui affrontarle, forse sarebbe il caso di trovare occasioni e sedi più propizie.
E Palmiro Togliatti, che c`entra? C`entra, c`entra. Perché il 21 agosto ricorreva il cinquantaseiesimo anniversario dalla morte. E il Pd ha provveduto, seppure in sordina, a celebrare la ricorrenza. Suscitando anche in questo caso polemiche a destra, in cui si è distinto in particolare Maurizio Gasparri, ma pure qualche dissenso al proprio interno, come quello manifestato da Arturo Parisi. Una specie di caso Cota della memoria, se possibile ancora più ozioso sotto il profilo politico e intellettuale, che però in qualche modo chiama ancora una volta in causa, seppure in modi a dir poco abborracciati, quella che un po` pomposamente (e sempre più stancamente) viene definita la questione della «identità» del Pd. Ancora negli anni Ottanta, quando però non c`era il Pd e nemmeno il Pds o i Ds, ma il partito comunista, l`anniversario della morte a Yalta del Migliore, oltre che di sobrie commemorazioni al Verano con foto notizia sul quotidiano del partito, poteva benissimo essere occasione di confronto e anche di scontro politico: memorabile, all`inizio del decennio, un articolo sull`Unità in cui Giorgio Napolitano trasse occasione dalla ricorrenza per denunciare il pericolo che la politica del partito si stesse riducendo a propaganda.
Certo Togliatti, per quanto severo e anche feroce possa essere il giudizio su di lui, fu un politico di primissima grandezza, non certo un propagandista. Se il grosso dei Pci e poi il Pds, a suo tempo, avessero scelto di incamminarsi sulla strada del revisionismo e della socialdemocrazia, di sicuro avrebbero dovuto fare con ben altra passione e con ben altro rigore i conti con la sua eredità. Ma, come è noto, la strada scelta è stata un`altra, quella che ha portato al Pd, un partito, per dirla con Nichi Vendola, che quasi per costituzione non è in grado di proporre una narrazione di sé, dell`Italia e del mondo, e forse non è nemmeno troppo interessato a costruirla. Ammesso e non concesso che il Pd abbia un albero genealogico e un Pantheon di padri nobili non da venerare, si capisce, ma ai quali ispirarsi, si fatica a capire non solo se Togliatti vi troneggi, ma, più in generale, chi altri (De Gasperi? Moro? Nenni? La Malfa? Fanfani? Berlinguer?) abbia titoli e meriti per farne parte: probabilmente, tutti e nessuno. La questione sarebbe seria, molto più seria delle polemicuzze sulla quantità di postcomunismo che circola nel poco sangue del Pd, suscitate da un anniversario e da una commemorazione frettolosa.
Però, ne siamo certi, Cota, alla festa, Togliatti lo avrebbe invitato, e con tutti gli onori. Quanto meno per non privarsi della soddisfazione di vedere a casa sua, di fronte alla sua gente, il Cota medesimo, e più ancora Tremonti, Calderoli e Maroni cortesemente costretti a dare delucidazioni sulla crisi del loro governo e della loro maggioranza.

Che la forza sia con voi!

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venerdì 20 agosto 2010

AMICIZIA

Ho sempre pensato che quella croce, mai ostentata e col Cristo rivolto verso il cuore,  dovesse parecchio pesargli. Perché in qualche modo era una specie di visibile contraddizione con la sua dolcezza, umanità e profonda umiltà. Tratti essenziali del suo essere. Di lui che, anche da vescovo, si faceva chiamare sempre e comunque don. Don Tonino. Don Tonino Bello:  nato ad Alessano (Puglia) nel 1935, ordinato prete nel 1957 e divenuto vescovo nel 1982. L'ho conosciuto in un'estate di parecchi anni fa nel corso del consueto campo estivo di Azione Cattolica, a Chiapuzza, un paio di chilometri oltre San Vito di Cadore. A tavola lui e l'allora Patriarca di Venezia Marco Ce'. Entrambi, e da sempre, legati indissolubilmente all'esperienza dell'Azione Cattolica. Io, per uno strano gioco del destino, di fronte a loro due (e annesso siparietto finale quando io e Sua Eminenza Ce' ci contendemmo simpaticamente l'ultimo pezzo di formaggio rimasto in tavola) . Nel 1992, stanco e smagrito, lo rividi, in televisione, alla guida di una delegazione di pacifisti (lui che il Vaticano volle alla guida di Pax Christi subito dopo Luigi Bettazzi) che a piedi giunsero in una Sarajevo sotto assedio. Il male, un cancro allo stomaco, lo vincerà definitivamente il 20 aprile 1993 a Molfetta.
Ho letto molte cose di e su don Tonino (ad esempio La carezza di Dio, Sentinelle del mattino, Testamento spirituale). E oggi ho letto questo

Caro don Tonino, in tutta sincerità non ho ancora fatto pace con la tua morte: non solo perché la tua assenza brucia (e talvolta non riesco quasi a perdonarti per quel salto senza rete che ti ha proiettato oltre l'orizzonte del nostro sguardo).

Ma perché dopo è stato davvero il finimondo. Come se, calato il sipario della tua esperienza terrena, la storia umana si fosse avvitata in una spirale nichilista e buia. Come se, a noi sopravvissuti, fosse comminata la pena dell'esilio da noi stessi, dai nostri bisogni di verità e di amore. È stato molto più di una solitudine e di uno smarrimento.
Tu eri volato, con le tue ali sfibrate dalle metastasi, nel cielo della "ulteriorità" (ti rubo una parola che mi hai sussurrato l'ultima volta). Noi invece di colpo eravamo scivolati giù nei dirupi del "pensiero unico", in uno spazio interdetto alla profezia e alla carità, in un alfabeto capovolto e levantino, in un universo di piccole patrie isteriche e minacciose, dove anche lo spirito santo veniva arruolato come un gendarme atlantico o un controllore orwelliano al servizio del New West. Era come tornare nel cono d'ombra delle catacombe.
Tu trasmutato in un'icona rischiosamente consolante, noi pronti per i leoni del Colosseo globale, della fiction seriale e della mass-mediocrità.
Sono passati come un lampo tutti questi anni e ancora sento il vento tiepido di quel pomeriggio di aprile, sulla spianata in fronte al mare azzurro di Molfetta, nella mestizia popolare di quella lunga, lenta, indicibile cerimonia dell'addio. Dieci anni fa. Oppure ieri. O forse è ora.
Lo so, caro vescovo, tu intercettasti tra i primi il vento cattivo che soffiava a Occidente. Sulla sequela di Cristo ci indicasti la Via Crucis che portava a Bagdad e a Sarajevo, osando immaginare e poi incarnando - in quella "festa di dolore" che ti fece solcare la terra ghiacciata e incandescente di Bosnia - una traccia di "Onu dei poveri": che ancora oggi è per noi una pietra angolare.
Ci raccontasti il malessere partendo dal benessere e dalle sue arti marziali e dai suoi valori misurati in Borsa: non basta "consolare gli afflitti", bisogna "affliggere i consolati", così ci provocavi. E le tue non erano capriole semantiche o giochi di enigmistica. Sull'asse della tua indignazione girava un intero mappamondo a forma di Golgota: e in ogni povero cristo (disoccupato o immigrato, tossico o carcerato) tu vedevi la "regalità" del dio vivente e ci ammonivi ad accogliere e a donare.
Amore, voce del verbo morire: non stavi alludendo a una spiritualità masochista, ma alla sfida permanente della conversione: che è schiudersi agli altri, scacciare i fantasmi della paura delle diversità, conoscere e scambiare e contaminarsi e donare.
Fuoriuscire dal recinto del privilegio e dell'egoismo, recidere il filo spinato del pregiudizio nutrito di petrodollari, detronizzare la dinastia planetaria del profitto. Cambiare registro, cambiare pelle al presente, farsi costruttori di strade e pontili piuttosto che di muraglie e di barriere architettoniche. Con-dividere: farsi compagni del mondo, farsi prossimo, coniugare i verbi della conoscenza e della tenerezza per chi normalmente inchiodiamo al legno delle nostre fobie e delle nostre pigrizie.
Lo so, don Tonino, persino l'immagine teologica della Trinità - fusione perfetta di tre entità distinte - era per te l'icona di quella splendida "visione" che hai colto nella più bella delle tue espressioni: convivialità delle differenze. Come un infinito abbraccio dei popoli e delle persone, delle fedi e delle culture. Questa, sui sentieri accidentati di Isaia, è la filigrana della pace che cerchiamo.
Sarà necessario, ovviamente, mutare le nostre spade in aratri e le nostre lance in falci. E cioè cambiare in radice modello di sviluppo e forma del potere: liberando la storia umana dalla sua ipoteca di oppressione e di violenza, sradicando dalle nostre lingue ogni codice di guerra, svuotandoci dell'odio che si è lungamente sedimentato nei nostri consessi civili e nei nostri cuori.
Carissimo amico perduto e ritrovato ogni giorno, tu ci lasciasti in dono un seme di passione (che è voce del verbo patire). Fummo confitti (non sconfitti) dai chiodi del conformismo e della omologazione. Eppure continuammo a coltivare quella charitas sine modo che ci sfida e ci interpella, quei "pensieri lunghi" che quasi ci sospendono tra cielo e terra.
Continuammo, seguendo la tua ombra buona, a costruire piste di "utopia": ecco, utopia è la parola che adoperano, con intenzioni di scherno, i trafficanti di realismo, i farisei dei nostri giorni, i burocrati dei silenti genocidi mercantili. Ma a dispetto di tutte le realpolitik, di tutti i governi e di tutte le cancellerie che ci dettano la lentezza delle loro tregue e la fretta delle loro guerre, ora, gridiamolo don Tonino, ora è il tempo dell'utopia! Perché avevi ragione tu: non andiamo verso la fine, ma verso un nuovo inizio.
E io volevo dire al mio pastore, mentre lo penso con nostalgia, che quel suo seme, dopo un inverno fin troppo lungo, ha cominciato a germogliare. Le oscure catacombe hanno figliato moltitudini di battezzati alla pace. È vero: rombano già i motori della macchina holliwoodiana della "guerra infinita".
Ma ancora più forte si sente, a ogni latitudine del mappamondo, il suono di una nuova coscienza. Forse l'antica sentinella può finalmente risponderci che la notte non è più tanto lunga, che sta per finire. E così sia.

A scriverla (credo il 1 marzo 2005) il suo allievo prediletto. Uomo profondamente ed intimamente di sinistra (e ve ne sono sempre meno in questo nostro Paese), scrittore, poeta, uomo politico. Si chiama Nichi Vendola

Una delle frasi che don Tonino amava ripetere spesso recita: Quando vi rivolgete a Maria nella vostra preghiera, chiedetele che vi dia anche tanta capacità di sogno, non chiedete solo cose terra terra. Chiediamo alla Vergine che ci dia le calde utopie che riscaldano il mondo

Che la forza sia con voi!

giovedì 19 agosto 2010

SUL CENTROSINISTRA

Un mio intervento pubblicato da "La Nuova Venezia" il 31 luglio scorso.

































Che la forza sia con voi!

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mercoledì 18 agosto 2010

L'OTTAVO PRESIDENTE

E dunque il Picconatore, Externator (solo alcuni dei nomignogli affibiatigli negli anni) se n'è andato. E lo ha fatto coerente con quello stile dirompente che aveva inaugurato negli ultimi due anni di Presidenza della Repubblica (dove fu eletto "giovanissimo" tenuto conto dell'età media degli inquilini del Quirinale): niente esequie solenni, niente presenza di autorità nella chiesa di San Giuseppe nella sua tanto amata Sassari. Francesco Cossiga è morto ed oggi tutti, ma proprio tutti, si sperticano in lacrimevoli parole di cordoglio. Eppure sono gli stessi che avevano provato persino la strada dell'impeachment contro quel Presidente canuto e malato di vitiligine (capelli bianchi e macchie sulla pelle gli comparvero subito dopo l'assassinio di Moro avvenuto quand'egli era Ministro dell'Interno come da tradizione storica del nostro Paese che per decenni ha visto occupato il Viminale da esponenti della DC) che, nel 1989, caduto il Muro di Berlino iniziò ad esternare su tutti e tutto. Folle?Pazzo? No. Semplicemente....uomo politico. Ed in quanto tale dotato di una lungimiranza e di una capacità di analisi talmente profondio da fargli intuire che quella svolta epocale avrebbe, di fatto, minato alla radice il sistema politico italiano; da  fargli comprendere che proprio la caduta del muro avrebbe dovuto deifnitivamente portare, anche in Italia, alla fine dell'ostracismo verso il PCI come possibile forza di governo. E non è un caso che, dopo la caduta di Prodi, Cossiga (Kossiga con le due "s" scritte in carattere runico lo chiamavano i brigatisti per i quali era il "nemico numero 1" salvo poi riconoscere che fu anche l'unico ed il solo a riconoscerli come avversari politici) molto si adoprò per far nascere il governo D'Alema quasi che, in questo, vedesse compiersi un progetto coltivato dal suo grande maestro, Aldo Moro. Quell'Aldo Moro di cui egli, 25 anni dopo l'assassinio, si assunse la responsabilità della morte, giungendo - finalmente! - ad ammettere che le le lettere dalla prigionia scritte dal leader democristiano non erano "moralmente false" (come invece furono bollate all'indomani della loro diffusione da Andreotti e dallo stesso Cossiga) ma autentiche.In un Paese in cui, ancora oggi, il segreto di Stato avvolge alcuni fra i più gravi misteri (Ustica, Piazza Fontana, i retroscena autentici del sequestro prima e dell'uccisione proprio di Aldo Moro) che andrebbero finalmente disvelati, saranno (forse) gli storici (e per questo io amo la storia!), tra qualche anno, a dipanare la complessa personalità di questo sardo, cugino di Berlinguer, collezionista di militaria e di oggetti informatici, amante della Scozia e di Sant'Agostino, perfetto padrone della lingua tedesca. Certo: aver occupato, per più di 50 anni, alcuni dei più importanti ruoli istituzionali non può che influire sul "giudizio" complessivo. Cossiga non è stato solo il picconatore (e, diciamocelo con franchezza, spesso le sue esternazioni superavano abbondantemente i confini costituzionali), l'antesignano fautore del Presidenzialismo, l'autore di giudizi tranchant ma anche l'uomo capace di chiedere scusa per gli errori di valutazione (come quello di chiamare spregiamente "giudice ragazzino", Rosario Livatino che - pochi mesi dopo - fu ucciso dalla Mafia e sul quale Nando Dalla Chiesa scrisse la bellissima biografia intitolata per l'appunto Il Giudice ragazzino, Einaudi, 1992; Cossiga scrisse alla famiglia una bellissima lettera). E' stato, certo, anche questo. Ma non solo. Gladio, P2, Giorgiana Masi (assassinata durante un corteo ), la vicenda Moro, Marco Donat Cattin (esponente dell'organizzazione terroristica Prima linea e figlio di Carlo, storico esponente DC; molti videro in questa vicernda, l'idea originaria che spinse Dino Risi a girare, nel 1979, il bellissimo Caro papà) sono solo alcuni dei capitoli che intrecciano la vita di Francesco Cossiga. E che egli non ha mai voluto svelare. Con ciò contribuendo a non rendere - purtroppo - il nostro paese ciò che si merita più di ogni altra cosa, l'essere un paese normale.
Che la forza sia con voi!

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