venerdì 30 luglio 2010

RACCONTO

Intanto uno passa le ore ad arrovellarsi.  A studiare incomprensbili diagrammi che vorrebbero avere la presunzione di spiegarti le dinamiche elettorali. A leggere saggi ed editoriali che si sforzano di farti capire i flussi elettorali. In altre parole: tutti pronti a spiegarti il perché 'sto PD e 'sto centrosinistra l'abbiano presa - dagli elettori - in quel posto per l'ennesima volta. Eh sì, diciamocelo chiaro: oramai manco le assemblee condominiali riusciremo a vincere se continuiamo così.
Poi ti capita che, su Facebook , un tuo carissimo amico, operaio a Porto Marghera commenti una tua (mia) solenne incazzatura (che è riassumibile con questa amara constatazione: milito in un Partito che esercita sistematicamene e pesantemente la non scritta regola di premiare chi perde le elezioni) con questo commento:

Pensa che xxx (la "causa" della mia incazzatura) è venuto in campagna elettorale da noi e per poco non lo prendevo a calci in culo. Sosteneva che era meglio la cassa integrazione piuttosto che sviluppare gli impianti (riferimento a SG31).

Il sindaco Orsoni poi è venuto a... fare la prima giunta in capannone dicendo che la realtà di porto marghera era sicuramente da salvare e sviluppare. Dopo un paio di giorni l'assessore alle attività produttive del comune se ne esce dicendo che a porto Marghera è meglio fare una bella gettata di cemento e chiudere le produzioni definitivamente.

Ecco: se un Partito nemmeno su Porto Marghera ha le idee chiare ma, soprattutto, la capacità di ridare speranza a chi oggi non ne ha, come è mai possibile possa affermarsi come forza di governo?
In queste settimane sto ricevendo cortesi solleciti a rinnovare la tessera del Partito Democratico. Solleciti cui rispondo...prendendo tempo. Mi pare che il PD, davvero, sia oramai frustrato da un perpetuo immobilismo di una classe dirigente autoreferenziale e autopremiantesi nonostante possa presentare un bilancio totalmente fallimentare (e non mi rifersico a Bersani). A proposito di Verso Nord, ieri ne Il Corriere del Veneto, Umberto Curi (che non è propriamente di destra) a proposito della cieca e arrogante reazione di qualche dirigente del PD scrive
Chiudersi a riccio di fronte al nuovo, prima ancora di aver capito quale senso possa avere e in quale direzione vada, vuol dire confermare un dato perfino drammatico che è all'origine del delcino della sinistra nel Veneto, vale a dire la difesa di miserabili rendite di posizione.

Alla Festa del PD di Campalto (cui ho partecipato perché, almeno quella, non si richiamava a cose del passato che denunciano la vocazione "monoteista" di alcuni miei coinquilini in quella che dovrebbe essere davvero una casa comune), Nichi Vendola non ha fatto un discorso alto e nobile. No. Ne ha fatto uno più dirompente: un discorso passionale, appassionato. Perché ha saputo dare una visione, un sogno, una speranza. Che è ciò che a noi manca! Non a caso martedì sempre sul Corriere Massimo Franco (uno che, a differenza mia, di politica ne mastica e parecchio) scrive che il Presidente della Puglia
 prova  a prendere per le corna una questione, quella delle identità, della capacità (e prima ancora della voglia) di mettere insieme un punto di vista autonomo, una soggettività, in una parola un'anima: tutte cose che il centrosinistra (...) sembra ormai considerare materiale d'archivio.
E ne riprende un concetto - chiave per l'oggi in cui continuiamo ad essere malati di antiberlusconismo: non si va lontano cercando le forme di estromissione del sovrano senza rendersi conto che il punto è mutare la cultura del regno.
Non so voi: ma io questa la chiamo progettualità, visione, speranza. L'unica sulla quale è possibile costruire sogni di vittoria. Perché i soigni sono belli. Ma quando si realizzano è meglio!

Che la forza sia con voi!

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giovedì 29 luglio 2010

C'E' CHI DICE NO

L'amico Rodolfo Viola, onorevole del PD mi invia queste sue considerazioni che volentieri diffondo:


Cari Amici,

come già saprete tutti gli emendamenti sulla manovra economica presentati dalle opposizioni sono stati respinti dal Governo e dalla sua maggioranza.
Come tutti i colleghi del PD, avevo anch’io presentato alcuni emendamenti come primo firmatario (quello sul credito di imposta sulla formazione post universitaria e quello sugli ATO del servizi idrici integrati in modo particolare) oltre ad una serie come cofirmatario: ovviamente bocciati tutti.
Il Governo ha posto la questione di fiducia impedendo alla maggioranza dei Parlamentari di intervenire nel dibattito in aula.
Francamente lo svilimento del ruolo del Parlamentare è ormai al massimo!
Al momento non so se in qualche modo potrò intervenire in aula, magari nella presentazione degli Ordini del giorno, almeno per lasciare un segno (oltre al voto negativo) del mio totale dissenso su questa manovra.

Che la forza sia con voi!

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venerdì 23 luglio 2010

ACQUA NEGATA

Da Il Corriere della Sera


NAIROBI - L'Alta Corte del Botswana ha negato ai Boscimani il diritto all'acqua. Una fine giuridica. I giudici hanno vietato loro il diritto di accedere al pozzo esistente nelle loro terre. E, se questo non bastasse, non potranno nemmeno costruirne uno nuovo all'interno della Central Kalahari Game Reserve (CKGR), una delle regioni più aride del mondo: la loro terra da sempre. Insomma vengono "presi per sete", come molti temevano che accadesse, visto che nella zona insistono enormi interessi di estrazioni minerarie (diamanti prima di tutto) e turistici, entrambi in contrasto con la presenza della popolazione indigna. La decisione era attesa da tempo e c'erano stati anche interventi dell'Onu perché si garantissero i diritti di un popolo che non vuole lasciare la sua terra. Il caso era stato discusso il 9 giugno alla presenza di molti boscimani che avevano affrontato un lungo viaggio per raggiungere il tribunale. Poi un nuovo rinvio.




SFRATTI ILLEGALI - «La sentenza - fa sapere Survival International, un'associazione che tutela le tradizioni dei popoli indigeni - infligge un'enorme ferita ai boscimani che lottano per sopravvivere senz'acqua già dal 2002, quando il Governo sigillò il pozzo per indurli ad abbandonare le terre ancestrali. Ma nel 2006 l'Alta Corte definì illegali e incostituzionali gli sfratti forzati operati dal Governo e, da allora, a centinaia sono ritornati nella riserva». Nel 2005 una donna indigena, Xoroxloo Duxee, è morta per disidratazione. Nonostante la sentenza, il governo proibì ai boscimani di riaprire il pozzo condannandoli ad affrontare quelle che l'Alto Commissario per i diritti indigeni dell'Onu James Anaya ha definito «condizioni di vita pericolose a causa dell'impossibilità di accedere all'acqua».



NEL RESORT DI LUSSO APRE LA PISCINA - Survival International ha poi anche rilevato che «allo stesso tempo è stata autorizzata l'apertura di un complesso turistico di lusso della "Wilderness Safaris" dotato di bar e piscina per i turisti, e lo scavo di nuovi pozzi per abbeverare gli animali selvatici con i soldi della Fondazione Tiffany & Co. Inoltre la Gem Diamonds ha ottenuto il nulla osta ambientale per aprire una miniera di diamanti nella riserva ma solo a condizione che non sia fornita acqua ai boscimani».



COME SI PUO' VIVERE SENZ'ACQUA? - Jumanda Gakelebone, portavoce dei Boscimani, non nasconde la sua disperazione: «Terribile. Come possiamo sperare di sopravvivere senz’acqua? Il tribunale ci ha autorizzato a vivere nelle nostre terre ma come si fa a farlo senz’acqua?». «Negli ultimi anni, il Botswana è diventato uno dei luoghi più ostili del mondo per i popoli indigeni» ha dichiarato Stephen Corry, direttore generale di Survival. Se ai Boscimani viene negata l’acqua nelle loro terre mentre viene fornita liberamente ai turisti, agli animali e alle miniere di diamanti, beh, allora gli stranieri dovrebbero chiedersi seriamente se possono accettare di sostenere questo regime visitando il paese e acquistando nei suoi negozi di gioielli».

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giovedì 22 luglio 2010

RIPARTENZA

Torniamo a riappropriarci di questo spazio virtuale lasciato colpevolmente vuoto da troppo tempo. E però la scrittura è comunque una forma di comunicazione emotiva e la leggerezza della penna vien facile averla quando si è sgombri da pensieri, preoccupazioni, stanchezze. Poi ci metti una bella giornata in montagna (con ferrata annessa e per vedere il resoconto cliccate qui ) in cui il camminare ti aiuta a riordinare le idee. E così non puoi non pensare alla bellissima tre giorni di Teatro estivo che, anche quest’anno, siamo riusciti ad allestire grazie al preziosissimo ed indispensabile aiuto di Arteven (Grazie a Massimo) e della provincia di Venezia. Tante le emozioni. Si potrebbe parlare del nostro Marco Paolini e del suo I.T.I.S: GALILEO: viaggio attorno ad un uomo di scienza, innamorato della scienza, convinto che l’esattezza della scienza imponesse a chiunque l’accettazione della realtà. Un illuso cui solo da poco tempo la Chiesa ha reso onore. E sarebbe bello raccontare di quanto accaduto prima di questo spettacolo: io e Marco seduti vicino al palco, a fumarci la pipa e a parlare di Teatro, di vita, di Vajont. Però è una emozione ed un colloquio intimo che terrò per me. E sarebbe altrettanto bello interrogarsi sull’altissimo valore etico della produzione dei nostri Gianantonio Stella e Gualtero Bertelli, tratta dall’ultima fatica letteraria di Stella. Ma, invece, voglio parlarvi di Giulio Casale, l’artista (nato a Treviso nel 1971 e con un glorioso trascorso di giocatore di basket tra le fila della Benetton) che ha concluso questo triduo teatrale. Giulio è autore di La canzone di Nanda: bellissimo, emozionante, meraviglioso. A Mira ha presentato The beat goes on: spettacolo che intende riproporre quel teatro – canzone colpevolmente trascurato da tanti artisti contemporanei. Un Teatro fatto di musica e parole; fatto di riflessioni e di interrogativi; di domande. Ma fatto anche di una delicata nostalgia nei confronti degli anni ’50 e ’60, anni culturalmente fra i più straordinari che mai l’umanità abbia potuto vivere. Anni che Giulio ci ha fatto rivivere attraverso le parole di Tenco, di De Andrè, di Guccini. Ma anche di Hemingway e, attraverso di lui, di tutta l’epopea di giovani artisti che tra i 26 e i 27 anni si suicidano probabilmente per non aver saputo sopportare il peso della gloria e della pressione. Giulio mi ha profondamente emozionato. Mi ha colpito la sua umiltà, la leggerezza del suo passo cui corrisponde la leggerezza della sua anima. Grazie Giulio. Grazie per quella ballata di Geordie: quando l’hai suonata, ho alzato gli occhi al cielo e mi è parso di vedere un sigaretta accesa fra le labbra di un sorriso genovese ed una faccia tonda con i capelli a caschetto che cantavano con noi!
Che la forza sia con voi!

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giovedì 15 luglio 2010

AMICI?

Da La Stampa di Massimo Gramellini


Lo conosci alla Statale di Milano che non hai ancora vent’anni. A ventitré cominci a lavorare per lui. A trentatré diventi il suo segretario personale e segui i lavori di ristrutturazione della sua villa: impianti elettrici e antifurto umano, un certo Mangano stalliere. A quarantuno entri nella sua concessionaria di pubblicità e gliela trasformi in una macchina da soldi. A cinquantadue converti la concessionaria in un partito politico ed è grazie a te se vince le elezioni. A cinquantaquattro vieni arrestato a Torino per un’indagine sui fondi neri della sua azienda, ti ritiri dietro le sbarre con un’edizione rilegata dei Promessi Sposi e sopporti tutto in silenzio, persino il chiasso di Sgarbi quando corre a visitarti in carcere. A cinquantotto patteggi una pena di due anni e tre mesi per frode fiscale e false fatture relative a un’azienda il cui proprietario è lui. A sessantanove sei condannato in appello a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa e intanto rilasci interviste sulla sua bontà e su quella di Mussolini, lo consigli, lo proteggi, ti fai intercettare in conversazioni curiose con un coordinatore del suo partito e un piduista sardo. E lui, invece di dedicarti un monumento a cavallo con stalliere o almeno un vialone di villa Certosa con vista sulle ballerine, che cosa fa? Ti definisce «pensionato sfigato».




Bell’amico si è scelto, dottor Dell’Utri.

 
Che la forza sia con voi!

giovedì 8 luglio 2010

ITALIANS

Beppe Severgnini:



Ho pensato che toglierci la patente a 80 anni fosse una buona idea. Fin qui, tutto bene. Solo che l'ho detto e scritto. Lettere, proteste, obiezioni: ho capito che la questione è delicata come i nonni e i ricordi. Coinvolge ragione ed emozione, autostima e indipendenza, illusioni e finzioni. Roba da maneggiare con cura.


Non ho cambiato idea, però. A 85 anni ritmi e riflessi non sono quelli di una volta, occhi e orecchi nemmeno. L'immagine di una persona anziana che procede lentissima al centro della carreggiata, s'immette alla moviola nel traffico, affronta svincoli tra selve di segnali, non è solo malinconica: è preoccupante.

Dico subito che mio padre - gennaio 1917, polemico e in forma - dieci anni fa s'è presentato a noi figli annunciando: «Ecco le chiavi dell'auto. Vado troppo piano e gli altri vanno troppo forte. E poi mi distraggo». Sorpresa, sollievo e ammirazione: perché non tutti gli anziani, e ben pochi padri, accettano il tempo che passa.

Siamo stati fortunati. Potrei raccontare però di genitori di amici che non mollano l'auto a 90 anni, seminando panico in famiglia e sulle strade. Di nonni che s'offendono, se qualcuno mette in dubbio la loro guida e la Fiat Ritmo, e sventolano l'assicurazione e la tessera ACI. Di conoscenti che ormai evitano ogni situazione di difficoltà - la notte, la pioggia, la nebbia - e vogliono convincerci a fare altrettando, spiegando che il problema è il mondo di fuori: non la data sulla loro carta d'identità.

Obiezione di alcuni lettori: i giovani fanno più incidenti! E noi anziani non siamo tutti uguali! «Rifiutare la patente a un ultraottantenne dichiarato idoneo alla guida significa togliergli l'autonomia e accorciargli la vita», scrive Armando Cristini a Sergio Romano. I giovani: certo. Bere e guidare sono una vergogna che diventa tragedia: il "Corriere" lo scrive da anni. E solo la pelosa pigrizia parlamentare ha impedito di porre limitazioni per i neo-patentati. Ma per i giovani è una questione di comportamenti, stavo per dire di software; per gli anziani un problema di hardware.

E qui arriviamo al punto dolente: un ottantacinquenne dichiarato idoneo alla guida quasi mai è idoneo alla guida. In Italia tutto s'aggiusta, molto si concorda, qualcosa si compra. Le prove d'idoneità sono spesso una formalità: ci vede, ci sente? Riflessi ok? Bene, ecco la patente per altri tre anni. E chi ci vede poco e ci sente male, che fa? Va dal vecchio amico medico, perché sai, non può dirmi di no.

Togliere la patente a 80 anni è un'ammissione d'impotenza. Lo Stato italiano sa di non poter valutare caso per caso, con coscienza ed efficienza (sarebbe la soluzione migliore). Propone perciò una barriera. Fermerà qualche anziano davvero idoneo, e dispiace. Ma bloccherà molti guidatori ormai pericolosi per sé e per gli altri, troppo orgogliosi per ammetterlo. I figli tireranno un sospiro di sollievo. Gli automobilisti che non li incontreranno più in mezzo agli incroci, pure.

Che la forza sia con voi!

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mercoledì 7 luglio 2010

IN VERITAS

Da Il Corriere della Sera, data odierna; editoriale di Ernesto Galli Della Loggia

UN PAESE SENZA POLITICA


Quale sia davvero lo spirito del Paese dubito che possano dircelo i sondaggi. Meglio ascoltare se stessi e dare retta a quello che si avverte dentro e specialmente intorno a noi. C’è una sensazione che domina su tutte le altre, se non sbaglio: la sensazione che sono finiti i tempi felici. Fino a qualche tempo fa il Paese, pur con tutte le sue contraddizioni, appariva comunque orientato ad una visione positiva del proprio futuro. Aveva dei punti di riferimento sicuri. A cominciare da quelli fuori dei propri confini.

L’Occidente di cui facevamo parte era il luogo della libertà e della ricchezza, e ogni anno avevamo un po’ di più tanto dell’una che dell’altra. In entrambi i casi stando al riparo di una sicurezza collaudata e senza costi. Oggi ci sembra di scorgere quotidianamente i sintomi che non è più così. L’Occidente, l’Europa stessa, stanno pian piano svanendo. E con loro svanisce la sensazione di forza, quasi d’invincibilità, che per tanto tempo essi hanno incarnato. Compaiono al loro posto nuovi giganti mondiali che però avvertiamo lontanissimi da noi. Indifferenti ai modi nostri e alle nostre esigenze. E di nuovo, dopo decenni che non accadeva, soldati italiani muoiono combattendo in remote contrade, di nuovo senza molte speranze di vittoria.
In casa nostra i giorni e la vita dei tempi felici volevano dire una rete antica e tutto sommato affidabile di istituzioni che ne erano i punti fermi: la scuola, una banca, un ufficio postale, il municipio, il sindacato. Tutte cose che esistono ancora, naturalmente, ma senza più il senso, la certezza e l’autorevolezza di una volta. Non sappiamo bene perché, ma sentiamo che è così. La Chiesa e la famiglia stesse—questi due pilastri all’apparenza indistruttibili della soggettività e insieme delle collettività italiane — sono alle prese con forze corrosive che ne stanno alterando il profilo sociale e attutendone la voce. Insieme è finita — drammaticamente finita per sempre, ci dicono—la speranza di un lavoro ragionevolmente sicuro nel tempo.
Una fase decisiva di come l’Italia è diventata moderna, l’industrializzazione, sembra ormai giunta ad un compimento: interi settori produttivi sono scomparsi nell’ultimo ventennio mentre non si contano gli impianti, le fabbriche del Paese passati in mani straniere nel disinteresse generale. Ai fini del Pil forse non conta, ma a quelli dell’immaginario e del sentimento sì. È come se stesse cambiando sotto i nostri occhi la moralità di fondo del Paese e al medesimo tempo il valore del nostro stare insieme. Il moltiplicarsi senza freno dei casi di corruzione pubblica, di malversazione, di sperperi, non fa altro che rafforzare questo senso di un cambiamento che sa piuttosto di disgregazione. E per parlare di cose che sono simbolo di molte altre: da quanto tempo un libro, un film, un’architettura, una rappresentazione, insomma una cosa nuova pensata o fatta in Italia, non fa parlare di sé il mondo? Siamo dunque un Paese in declino? Meglio non dirlo. E forse non è neppure vero se si guarda a certi dati pure fondamentali. Ma senza dubbio siamo un Paese che sente di essere nel mezzo di un passaggio assai difficile della sua storia. E sente di affrontare questo passaggio senza guida, abbandonato agli eventi, al giorno per giorno. Nessuno è in grado di dirgli qualcosa circa il futuro che lo aspetta, che ci aspetta. Nessuno vuole o sa parlare alla sua mente e al suo cuore. Nessuno è capace di indicargli una via e una speranza. Ma che cos’è questo se non il compito della politica? Ecco allora il vero cuore duro della nostra crisi.
Ciò di cui l’Italia è oggi drammaticamente e specialmente priva è la politica. Non riusciamo a farci una ragione del presente e a vedere come affrontare il futuro perché ci manca la politica. La quale nella sua accezione più vera non significa altro che un progetto per la «città», un’idea del suo destino. Il discorso cade irrimediabilmente su chi soprattutto ha rappresentato la politica in tutti questi anni: su Berlusconi. Sarebbe sbagliato prima che ingiusto dire che egli non ha fatto, non ha realizzato nulla. Ma ciò che pure ha fatto, i cambiamenti tutto sommato positivi che egli ha contribuito a introdurre, i tentativi riformatori che pure ha cercato di mettere in opera, hanno mancato tutti su un punto decisivo. Berlusconi non è mai riuscito a iscriverli in un discorso generale rivolto a tutto il Paese, un discorso che fosse capace di parlare al suo animo, di comunicargli quel senso della sfida e quell’esigenza di mobilitazione che i tempi difficili richiedevano e richiedono. Se aveva un’idea d’Italia, di certo non si è mai curato di trasmetterla con qualche efficacia agli italiani. Egli è rimasto fino in fondo l’uomo di una parte, convinto forse che in ciò, alla fin fine, consistesse il suo vero ascendente sul proprio elettorato.
E così, più che espressione della politica in senso alto o dell’«antipolitica», come hanno sempre detto i suoi detrattori, alla fine egli si è ridotto ad essere (o ad apparire, il che è lo stesso) null’altro che l’uomo della non-politica. In numerosa compagnia, ahimè. La sua ormai lunga egemonia sul sistema politico, infatti, ha corrisposto alla — e si spiega con la —crisi perdurante e l’afasia politica di tutti i suoi oppositori. I quali mostrano di sapere solo parlare ossessivamente di lui e contro di lui, ma al di là di qualche banale genericità a base di «bisogna questo » e «bisogna quest’altro» — e naturalmente senza mai spiegare come o a spese di chi — non sanno andare. Sicché ormai il Paese ascolta anche l’opposizione nella più totale indifferenza, con un’alzata di spalle. Neppure da lei gli viene il racconto di qualche verità sgradevole, l’indicazione di una via difficile, una proposta nuova e ardita. Eppure nell’intimo della sua coscienza l’Italia avverte che questo solo sarebbe il modo per sperare di fare i conti con il mondo nuovo e aspro in cui essa è ormai entrata. Per farlo essa sarebbe anche disposta ad accettare medicine amare, se solo qualcuno gliene spiegasse però il senso e la necessità: se qualcuno le sapesse parlare di politica. Invece, come i malati avviati a una sorte rassegnata e infelice, essa si vede prescrivere solo degli zuccherosi placebo a base di nulla.


Che la forza sia con voi!

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