Gli anni settanta non sono stati soltanto gli anni di piombo, delle stragi e della strategia della tensione. Sono stati anche gli anni degli intrighi finanziari, della commistione affari/politica, dell'economia spregiudicata. E pure gli anni in cui Licio Gelli diventò elemento fondamentale della loggia massonica P2. In questo clima ancora oggi indistinto e non totalmente chiarito (per via anche del segreto di stato posto su molti documenti che impediscono agli storici di fare un'analisi compiuta di queste vicende) Michele Sindona, affiliato alla P2, ricevette un sostanzioso prestito, avvalato dalla Banca d'Italia di Guido Carli, per evitare il fallimento di alcuni istituti di credito di sua proprietà. Purtuttavia la situazione finanziaria di questi istituti (poi fusi in un unico soggetto) era molto più grave del previsto. Talmente grave che, nel 1974, Giorgio Ambrosoli (avvocato milanese) fu nominato commissario liquidatore dell'istituto. Il suo fu un incarico difficilissimo caratterizzato da continue minacce tanto da spingerlo a scrivere, il 25 febbraio del 1975, una lettera alla moglie, Anna, in cui tra l'altro scrive
E' indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il paese.
L'avvocato Ambrosoli aveva assolutamente ragione. Quell'incarico lo avrebbe pagato a caro prezzo e senza sconti l'11 luglio 1979 quando fu colpito da quattro colpi di Magnum 357 che lo uccisero sul posto (ai suoi funerali nessun rappresentante istituzionale; solo una delegazione della Banca d'Italia). Nei giorni scorsi molta polemica hanno provocato le dichiarazioni del senatore a vita Giulio Andreotti secondo cui:
Non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo, è una persona che in termini romaneschi se l'andava cercando
Oggi ne
Il Corriere, Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, ha scritto questo
In ordine all'esempio di mio padre, come a quelli di tante altre persone che hanno perso la vita agendo nell'interesse del Paese, vengono identificati diversi significati: onestà, senso dello Stato, libertà, consapevolezza, capacità di indignarsi, senso del dovere.
Guardiamo quest'ultimo: quell'accezione secondo la quale una persona svolge il proprio dovere, realizza la propria funzione, senza farsi condizionare da nulla e da nessuno. Presupposto del senso del dovere è la responsabilità. Parola questa che etimologicamente significa «risposta» e che non si pone in termini astratti: non è nemmeno un titolo di merito. È piuttosto un debito: verso il mandato, quale che ne sia l'oggetto. È responsabile un genitore in ordine ai figli, un imprenditore verso l'economia e l'esercizio dell'impresa, un lavoratore nell'adempimento delle sue mansioni, uno sportivo per lo svolgimento della sua attività. È responsabile, cioè debitore, in termini più estesi chi ricopre incarichi pubblici: verso la collettività. Ripenso alla lezione di mio padre, riproposta ieri sera in tv da Giovanni Minoli nel programma La Storia siamo noi: il presupposto essenziale per «rispondere» è conoscere l'oggetto della domanda, del mandato. Per essere un buon padre bisogna prima di tutto aver chiare le esigenze dei figli, ed in secondo luogo avere la forza di anteporle alle proprie. Assecondare l'esigenze educative dei figli è più facile: per la peculiarità del rapporto figlio-genitore. Per l'imprenditore, ad esempio, le cose cambiano. Già il livello di comprensione del «mandato» rischia di essere viziato da un potenziale contrasto tra l'interesse proprio e quello dell'economia o dell'esercizio dell'impresa. L'imprenditore può far fatica a concepire, ad esempio, la compatibilità tra l'interesse dell'impresa ed il non corrompere per aggiudicarsi un appalto. Ma in realtà l'imprenditore responsabile non è colui che persegue il proprio immediato interesse (ad esempio assumendo in nero, smaltendo illecitamente i rifiuti, o corrompendo, ecc...), ma è colui che ha la forza di condurre la sua azienda in armonia con le esigenze dell'ordinamento. Ci si può vantare di essere imprenditori solo quando si ha chiaro verso chi è rivolta la responsabilità dell'impresa e quando si è capaci di perseguirla proprio in quei termini. La responsabilità del padre, quella dell'imprenditore e quella di tanti altri soggetti origina in una sfera privata che poi arriva a coinvolgere quella pubblica. Ma l'origine è privata.
La responsabilità dei politici, invece, origina nella sfera pubblica, alle esigenze della quale il politico deve rispondere. La continua attenzione alle esigenze e al rispetto del bene comune può non essere coerente con la realizzazione del proprio interesse contingente, ma la scelta è (dovrebbe essere) fatta a priori ed il fatto stesso di candidarsi a quella responsabilità implica (dovrebbe implicare) la ferma determinazione ad avere sempre chiaro il bene comune e ad aver la forza di sovraordinarlo, sempre, a quello personale. L'alternativa tra «interesse personale ed interesse pubblico», una volta fatta la scelta di candidarsi o di accettare una responsabilità istituzionale, dovrebbe essere risolta a priori. Altrimenti non c'è lo Stato, ma solo un insieme di persone che, rivolte verso se stesse, non possono costituire alcuna coesione, ma la accozzaglia di interessi diversi perseguiti da chi intende la responsabilità come affermazione.
Essere responsabili può essere faticoso e finanche doloroso. Rispettare l'interesse comune nell'immediato (e non solo) può essere durissimo. Ma saper essere responsabili rende piene di vita anche le scelte più difficili. Se il passato o il presente ci consegnano esempi di responsabilità radicalmente fraintese e abdicate, è l'ora per trarne lo stimolo ad un cambiamento necessario.
Che la forza sia con voi!
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