martedì 21 settembre 2010

QUESTIONI DI...SCELTE

Appaio anche io (e con una evidenza che credo di non meritare) tra i firmatari "locali" del cosiddetto documento Veltroni/Fioroni/Gentiloni. In questo spazio mi piacerebbe cercare di spiegarne i motivi. Lo dico subito: NON l'ho fatto per la stima e la profonda amcizia che mi  lega ad alcuni dei firmatari "principali" primi fra tutti Andrea (Causin) e Rodolfo (Viola). L'ho fatto pur sapendo che da più parti già vi é chi ne bolla i firmatari come prossimi transfughi verso altri lidi. L'ho fatto pur convenendo che probabilmente meglio sarebbe stato se i documenti prima di essere pubblici fossero discussi nelle sedi più opportune (talvolta - lo confesso - vorrei che vi fosse più "centralismo democratico" all'interno del PD). Tolti di mezzo dunque i "se" e i "ma" ritengo che questo documento sia, di fatto, l'ultima occasione per il PD; un partito che non è un partito nuovo (magari!) né un nuovo partito ma che rassomiglia sempre più ad un partito a....tempo determinato. Troppe le questioni irrisolte, troppe le risposte inespresse alle domande cruciali che veramente interessano oggi la collettività. Stiamo assistendo al rovesciamento dei più elementari e basilari principi della (buona) prassi politica. Che, ad esempio, prevederebbe - se davvero si vuol riscoprire una unità che non sia nè unitarismo nè fondamentalismo numerico - dapprima la realizzazione di un documento unitario e aperto e solo in un secondo tempo l'individuazione del miglior candidato possibile cui affidarne la realizzazione (ed io voterò Michele Mognato). Poco importa - seppure, a me pare, significativo - che il prossimo segretario provinciale del PD sia l'ultimo segretario provinciale di una delle due componenti costititutive il PD (ed io voterò comunque Mognato). Poco importa se ancora oggi su taluni manifesti pubblicizzanti le feste del PD trovo scritto che queste feste "proseguono la grande tradizione delle Feste dell'Unità". Poco importa se stiamo (non) discutendo di alleanze variabili: nei giorni pari "tutti insieme", nei giorni dispari o l'IDV o l'UDC. E ne frattempo ci dimentichiamo che una coalizione che sia mera alleanza elettorale, sommatoria di forze che nulla di condiviso hanno, è alla base della colossale trombata che abbiamo inflitto a Romano Prodi. Poco importa tutto questo....Importa quelli che mi pare siano i passaggi fondamentali del documento. Il primo innanzitutto
Il Partito(...)  è nato con l’ambizione di rappresentare la proposta adeguata ad affrontarlo: non per un atto di presunzione, ma per la convergenza di diverse storie, culture, tradizioni riformiste, accomunate dal riconoscimento della propria inadeguatezza dinanzi alle sfide inedite del presente e del futuro
Sfide che, a me pare, continuiamo a non raccogliere nelle paura sostanziale di scontentare qualcuno.
Il secondo
La crisi del berlusconismo rende(...)  la prospettiva costitutiva del Partito democratico (...) anche più realistica e praticabile (...)  a condizione che si voglia e si sappia uscire dal recinto – territoriale, sociale, generazionale – dei consensi tradizionali, per aprirsi alla ricerca di nuovi apporti.
Così non è stato fin qui, o non lo è stato abbastanza, per responsabilità diffuse e condivise. Non si spiegherebbe altrimenti il paradosso per il quale il Pd è riuscito ad ottenere quasi il 34 per cento dei voti nel momento di massima difficoltà per il centrosinistra e di massimo consenso al berlusconismo e fatica oggi a stare sopra il 25 per cento, in piena crisi politica del centrodestra.


Il terzo (dopo il rifiuto di alleanze prettamente elettoralistiche).


Il Partito democratico (...) se vuole restare fedele a se stesso e soprattutto se vuole fondare la sua proposta di governo su basi solide, non politiciste,  deve darsi una strategia di allargamento dell’area dei propri consensi, che faccia leva su un programma riformista, su un progetto innovativo per il Paese e su una classe dirigente fortemente rinnovata, attingendo a risorse che non siano solo quelle della politica tradizionale. Il Pd deve porsi l’obiettivo esplicito e dichiarato di allargare in modo cospicuo i suoi consensi e il suo radicamento ove oggi sono più deboli e fragili: a cominciare dal Nord, dal mondo produttivo, dalle nuove generazioni.

Il quarto
Non intendiamo dar vita ad una corrente, ad uno strumento chiuso nella logica della lotta interna, ma ad un Movimento, che si proponga il rafforzamento del consenso al Pd e del suo pluralismo, coinvolgendo forze interne ed esterne al partito, tornando ad appassionare energie che si sono allontanate e rischiano di disperdersi e suscitando l'attenzione e l'interesse di settori della società italiana che la crisi politica e culturale del centrodestra ha rimesso in moto.

Queste le ragioni fondamentali che mi hanno portato a co-firmare questo documento. Un documento che è atto di lealtà (anche amore per cerit versi) nei confronti di un Partito che ritengo potenzialmente in grado di fare cose grandissime. Ma che ad oggi appare chiuso, isolato, incapace di aprirsi.
Che la forza sia con voi!

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lunedì 20 settembre 2010

SOLITUDINI

Da Il Corriere della Sera a firma Ernesto Galli Della Loggia

La solitudine dei numeri due


 
C’è un solo, vero vantaggio s t r a t e g i c o che la destra italiana ha sulla sinistra. La destra ha un capo, la sinistra no. Specie quando si tratta di votare, di scegliere un futuro presidente del Consiglio questo si rivela un vantaggio decisivo. Il candidato della destra è il suo capo effettivo, conosciuto e riconosciuto come tale. Il candidato della sinistra, invece, è uno scelto a fare il candidato dai capi veri. La cui autorità quindi è un’autorità delegata, revocabile in ogni momento.







La scelta di Berlusconi come capo della destra, per varie ed ovvie ragioni (ma anche per una meno ovvia e di solito dimenticata: ed è che la destra italiana quale oggi la conosciamo l’ha inventata lui e solo lui) non ha bisogno di spiegazioni. Da che il Cavaliere ha deciso di scendere in campo il fatto che il capo sia lui è qualcosa d’indiscutibile, sul quale Berlusconi per primo non è disposto a transigere. Nessuno del resto ha mai pensato di prenderne il posto. Fini stesso, dopo anni di acquiescenza, si è limitato a chiedere di essere coinvolto in qualche modo nelle decisioni da prendere e di poter esercitare una sia pure insistente libertà di critica. È bastato questo per vedersi cacciato dal Pdl su due piedi.






Ciò che richiede di esser capito e spiegato, dunque, è perché la sinistra invece non riesca lei ad avere un capo. Mi sembrano tre i motivi principali.






Perché, innanzi tutto, non ci riesce quello che è il suo partito di gran lunga più forte, il Pd. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non aver scelto l’identità socialdemocratica, preferendole quella furbastra dei «democratici », lungi dal dare al part i t o e x c o m u n i s t a un’identità più ampia ed onnicomprensiva (come molti evidentemente speravano), gli ha reso impossibile, all’opposto, avere una qualunque identità. Lo ha condannato ad essere in permanenza un’accozzaglia di gruppi, di storie, di opinioni, ma non un partito. Dunque neppure ad avere una fisiologica e stabile vita interna con un capo riconosciuto. Il «comunismo » italiano, qualunque cosa esso fosse, traeva comunque dal leninismo il divieto ferreo del frazionismo e la conseguente inattaccabilità del segretario generale. Scomparso il «comunismo », non sostituito da niente, sembra svanita l’idea stessa di un capo. Sulla scena sono rimasti una dozzina di leader in lotta tra di loro ed autorizzati dal vuoto d’identità a recitare a turno tutte le parti in commedia.






Il secondo motivo riguarda con ogni evidenza la divisione ideologica della sinistra. Anche la destra è ideologicamente divisa, ma a destra sulle divisioni riesce sempre a prevalere in ultimo la volontà di vincere, e quindi il riconoscimento bene o male di un capo. Sulle passioni, cioè, riesce ad avere la meglio l’interesse politico complessivo.






A sinistra, invece, sembra prevalere su tutto la passione del proprio particolare punto di vista (di Rifondazione, Italia dei valori, Grillini, Verdi, ecc. ecc.). Vincere è importante, sì, ma a patto che ogni particolare punto di vista abbia modo di sopravvivere e di poter dire la sua da pari a pari con gli altri. Dunque senza riconoscere alcun capo: al massimo un leader elettorale. A sinistra il principale interesse politico, insomma, non è la vittoria sulla destra ma il mantenimento in vita delle proprie subidentità. In questo senso l’interesse delle varie minileadership fa corpo con l’aggressiva suscettibilità, alla base, delle varie sfumature del radicalismo ideologico.






C’è infine un terzo motivo, riconducibile in generale alla cultura maggioritaria nel popolo di sinistra. È il forte elemento antigerarchico presente in tale cultura. Cioè l’ostilità all’idea che specie in politica ci sia, debba esserci, uno che comanda e gli altri che obbediscono. E che dunque non contano solo le cosiddette «forze sociali», non solo «le strutture», ma anche (e come!) la personalità individuale: sicché la cosiddetta personalizzazione lungi dall’essere una patologia della politica è viceversa iscritta da sempre nel suo destino. Come se non bastasse, questo atteggiamento costitutivo della mentalità di sinistra è stato infine enormemente rafforzato dall’enfasi spasmodica posta sull’antiberlusconismo. Berlusconi dipinto incessantemente come «duce», «ras», «boss» ha prodotto l’effetto di squalificare ulteriormente ogni idea di comando, di capo. A ciò si è aggiunto l’altrettanto spasmodico e conseguente pregiudizio antipresidenzialista. Consacrato da una Costituzione la quale, si dice, sancirebbe la suprema ridicolaggine politica che un Paese possa essere governato non da un capo ma da un «primus inter pares».






Una sinistra con molti capetti ma senza un capo è costretta così a inventarsene spasmodicamente uno ad ogni stormir di fronde elettorali. Aprendo ogni volta un gioco al buio nel quale rischia di avere maggiori possibilità di successo, paradossalmente, o chi, tipo Beppe Grillo, in realtà non ha mai avuto a che fare con la politica, o chi, come Vendola, affida il suo richiamo sul pubblico allo stesso vuoto populismo del Grande Avversario da battere.

Che la forza sia con voi!

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venerdì 10 settembre 2010

GIORGIO & GIULIO

Gli anni settanta non sono stati soltanto gli anni di piombo, delle stragi e della strategia della tensione. Sono stati anche gli anni degli intrighi finanziari, della commistione affari/politica, dell'economia spregiudicata. E pure gli anni in cui Licio Gelli diventò elemento fondamentale della loggia massonica P2. In questo clima ancora oggi indistinto e non totalmente chiarito (per via anche del segreto di stato posto su molti documenti che impediscono agli storici di fare un'analisi compiuta di queste vicende) Michele Sindona, affiliato alla P2, ricevette un sostanzioso prestito, avvalato dalla Banca d'Italia di Guido Carli, per evitare il fallimento di alcuni istituti di credito di sua proprietà. Purtuttavia la situazione finanziaria di questi istituti (poi fusi in un unico soggetto) era molto più grave del previsto. Talmente grave che, nel 1974, Giorgio Ambrosoli (avvocato milanese) fu nominato commissario liquidatore dell'istituto. Il suo fu un incarico difficilissimo caratterizzato da continue minacce tanto da spingerlo a scrivere, il 25 febbraio del 1975, una lettera alla moglie, Anna, in cui tra l'altro scrive
E' indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il paese.
L'avvocato Ambrosoli aveva assolutamente ragione. Quell'incarico lo avrebbe pagato a caro prezzo e senza sconti l'11 luglio 1979 quando fu colpito da quattro colpi di Magnum 357 che lo uccisero sul posto (ai suoi funerali nessun rappresentante istituzionale; solo una delegazione della Banca d'Italia). Nei giorni scorsi molta polemica hanno provocato le dichiarazioni del senatore a vita Giulio Andreotti secondo cui:
 Non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo, è una persona che in termini romaneschi se l'andava cercando
Oggi ne Il Corriere, Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, ha scritto questo

In ordine all'esempio di mio padre, come a quelli di tante altre persone che hanno perso la vita agendo nell'interesse del Paese, vengono identificati diversi significati: onestà, senso dello Stato, libertà, consapevolezza, capacità di indignarsi, senso del dovere.
Guardiamo quest'ultimo: quell'accezione secondo la quale una persona svolge il proprio dovere, realizza la propria funzione, senza farsi condizionare da nulla e da nessuno. Presupposto del senso del dovere è la responsabilità. Parola questa che etimologicamente significa «risposta» e che non si pone in termini astratti: non è nemmeno un titolo di merito. È piuttosto un debito: verso il mandato, quale che ne sia l'oggetto. È responsabile un genitore in ordine ai figli, un imprenditore verso l'economia e l'esercizio dell'impresa, un lavoratore nell'adempimento delle sue mansioni, uno sportivo per lo svolgimento della sua attività. È responsabile, cioè debitore, in termini più estesi chi ricopre incarichi pubblici: verso la collettività. Ripenso alla lezione di mio padre, riproposta ieri sera in tv da Giovanni Minoli nel programma La Storia siamo noi: il presupposto essenziale per «rispondere» è conoscere l'oggetto della domanda, del mandato. Per essere un buon padre bisogna prima di tutto aver chiare le esigenze dei figli, ed in secondo luogo avere la forza di anteporle alle proprie. Assecondare l'esigenze educative dei figli è più facile: per la peculiarità del rapporto figlio-genitore. Per l'imprenditore, ad esempio, le cose cambiano. Già il livello di comprensione del «mandato» rischia di essere viziato da un potenziale contrasto tra l'interesse proprio e quello dell'economia o dell'esercizio dell'impresa. L'imprenditore può far fatica a concepire, ad esempio, la compatibilità tra l'interesse dell'impresa ed il non corrompere per aggiudicarsi un appalto. Ma in realtà l'imprenditore responsabile non è colui che persegue il proprio immediato interesse (ad esempio assumendo in nero, smaltendo illecitamente i rifiuti, o corrompendo, ecc...), ma è colui che ha la forza di condurre la sua azienda in armonia con le esigenze dell'ordinamento. Ci si può vantare di essere imprenditori solo quando si ha chiaro verso chi è rivolta la responsabilità dell'impresa e quando si è capaci di perseguirla proprio in quei termini. La responsabilità del padre, quella dell'imprenditore e quella di tanti altri soggetti origina in una sfera privata che poi arriva a coinvolgere quella pubblica. Ma l'origine è privata.
La responsabilità dei politici, invece, origina nella sfera pubblica, alle esigenze della quale il politico deve rispondere. La continua attenzione alle esigenze e al rispetto del bene comune può non essere coerente con la realizzazione del proprio interesse contingente, ma la scelta è (dovrebbe essere) fatta a priori ed il fatto stesso di candidarsi a quella responsabilità implica (dovrebbe implicare) la ferma determinazione ad avere sempre chiaro il bene comune e ad aver la forza di sovraordinarlo, sempre, a quello personale. L'alternativa tra «interesse personale ed interesse pubblico», una volta fatta la scelta di candidarsi o di accettare una responsabilità istituzionale, dovrebbe essere risolta a priori. Altrimenti non c'è lo Stato, ma solo un insieme di persone che, rivolte verso se stesse, non possono costituire alcuna coesione, ma la accozzaglia di interessi diversi perseguiti da chi intende la responsabilità come affermazione.
Essere responsabili può essere faticoso e finanche doloroso. Rispettare l'interesse comune nell'immediato (e non solo) può essere durissimo. Ma saper essere responsabili rende piene di vita anche le scelte più difficili. Se il passato o il presente ci consegnano esempi di responsabilità radicalmente fraintese e abdicate, è l'ora per trarne lo stimolo ad un cambiamento necessario.

Che la forza sia con voi!

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martedì 7 settembre 2010

CONOSCENZE

Un amico mi ha cortesemente segnalato questo articolo pubblica da Il Riformista dello scorso 25 agosto a firma Marco Sarti

« «Umberto Bossi vuole le elezioni? Alla fine dovrà fare quello che gli dice Silvio Berlusconi. Anche perché già da qualche anno il simbolo della Lega Nord appartiene al Cavaliere». La storia non è nuova. Un’indiscrezione che gira da tempo a Palazzo: nel 2005 il premier avrebbe finanziato il Carroccio, a un passo dalla bancarotta. In cambio, avrebbe chiesto e ottenuto la titolarità del logo del partito. Lo «spadone» di Alberto da Giussano. A confermare la vicenda è Rosanna Sapori, già consigliere comunale della Lega, membro del direttivo provinciale di Bergamo e, soprattutto, (ormai ex) celebre giornalista di Radio Padania Libera. «Nessuna invenzione – spiega la diretta interessata – l’ho detto più volte, anche in tv. E finora nessuno si è mai permesso di smentirmi». E dire che fino a pochi anni fa Rosanna Sapori e Umberto Bossi erano grandi amici. «Con lui – continua la giornalista – ho sempre avuto un rapporto bellissimo. Una relazione che, a differenza di altre donne all’interno della Lega, non aveva alcuna implicazione sessuale». Il legame tra i due termina nel 2004, quando Rosanna viene cacciata da Radio Padania. Alla base di quella epurazione, racconta lei, ci sarebbe proprio il legame con il Senatur. «La nostra amicizia aveva creato molta invidia a via Bellerio. Non è un caso che mi licenziarono proprio durante la sua malattia». Nonostante tutto, Rosanna Sapori conserva un ottimo ricordo del leader della Lega: «Nella vita di tutti i giorni non era mica quello di Pontida. Lì recitava un ruolo: urlava e le sparava grosse perché la gente lo voleva così. Ma lui era tutt’altro. Una persona furba e capace. Con una enorme lungimiranza. Figurarsi che già sei anni fa odiava Gianfranco Fini. A Berlusconi lo diceva sempre: “Vedrai che questo qui prima o poi ti tradirà”». Un politico di razza, insomma. Ma anche un padre padrone. «Era un profondo conoscitore della psiche umana e del linguaggio del corpo. I suoi erano terrorizzati. Se ne prendeva di mira uno, lo massacrava. Lo insultava, lo umiliava. Godeva nel vederli prostrati davanti a lui». La presunta compravendita del simbolo? A sentire la Sapori, i problemi per la Lega iniziarono con la creazione di Credieuronord. «Per carità – rivela la giornalista, che ha raccontato questa vicenda nel libro “L’unto del Signore” di Ferruccio Pinotti – probabilmente quell’istituto di credito è nato con tante buone intenzioni. Anche se Bossi non ci ha mai creduto più di tanto». In realtà, in quegli anni il maggior sponsor di Credieuronord è proprio il Senatur. È Bossi a scrivere una lettera in cui invita i vertici del partito a sottoscrivere le quote della banca. «Sarà – continua la Sapori – ma lui in quel progetto ci mise solo 20 milioni di lire. Calderoli, per esempio, investì 50 milioni. Ricordo che molti parlamentari, anche per paura di non essere più ricandidati, ci buttarono un sacco di soldi». Il sogno bancario della Lega sfuma in poco tempo. Il bilancio 2003 dell’istituto di credito si chiude con 8 milioni di perdite. Nello stesso anno, un’ispezione di Bankitalia fa emergere il dissesto. «A quel punto Bossi, che forse aveva perso il controllo della banca – continua la Sapori – chiamò Giancarlo Giorgetti, suo confidente in materia finanziaria. Lo ricordo benissimo. Gli chiese: “Fammi capire cosa sta succedendo”. Giorgetti si recò nella sede della banca, a due passi da via Bellerio, entrò e non ne uscì per una settimana. Quando portò i conti a Bossi, gli disse molto chiaramente che rischiavano di andare tutti in galera». Misteriosamente, la Lega trova una via d’uscita. Nel 2005, la Banca Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani interviene per rilevare Credieuronord. E Silvio Berlusconi cosa c’entra in tutta questa storia? «Fu lui a permettere l’intervento di Fiorani – spiega la Sapori -. In ogni caso i conti dissestati della Lega non derivavano mica solo dalla banca. C’erano già i problemi finanziari dell’Editoriale Nord, l’azienda cui facevano capo la radio, la tv e il giornale di partito. Il primo creditore di Bossi, poi, era proprio il presidente Berlusconi. Le innumerevoli querele per diffamazione che gli aveva fatto dopo il ribaltone del ’94, le aveva vinte quasi tutte. La Lega era piena di debiti. Si era imbarcata in un’interminabile serie di fantasiosi e poco redditizi progetti come il circo padano, l’orchestra padana. Non riuscivano a pagare i fornitori delle manifestazioni. Ricordo che allora erano sotto sequestro le rotative del giornale e i mobili di via Bellerio». Così, secondo il racconto della Sapori, il Cavaliere decide di ripianare i debiti del Carroccio. Facendosi dare, in cambio, la titolarità del simbolo del partito. «Glielo suggerì Aldo Brancher – ricorda la Sapori -. La titolarità del logo di Alberto da Giussano era di Umberto Bossi, della moglie Manuela Marrone e del senatore Giuseppe Leoni. Furono loro a firmare la cessione del simbolo. È tutto ratificato da un notaio». E aggiunge: «Fini questa storia la conosce benissimo – taglia corto la Sapori -. Qualche anno fa lui e il premier si incontrarono a cena a Milano. C’erano anche altri parlamentari del centrodestra. Quando qualcuno si lamentò del comportamento della Lega, il Cavaliere si alzò in piedi e annunciò: “Non preoccupatevi di Bossi, lui non tradirà più. Lo spadone è mio”». Secondo indiscrezioni, il simbolo del Carroccio costò a Berlusconi circa 70 miliardi di lire. Sulla cifra, però, Rosanna Sapori non si espone. «So solo che il Cavaliere tolse le querele, si preoccupò di salvare la banca. Ma non saldò tutto con un unico versamento. Non gli conveniva. Decise di pagare a rate».

Che la forza sia con voi!

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giovedì 2 settembre 2010

LETTERA

PENSIERINO DI INIZIO ANNO SCOLASTICO

di Andrea Causin

Caro Presidente Luca Zaia,







Ti scrivo questa “letterina” non tanto come Consigliere della Regione che tu presiedi, ma come Veneto e come padre di un bimbo che tra 13 giorni inizierà la prima elementare (a me piace chiamarla ancora così).


Personalmente ho sempre vissuto male l’inizio della scuola.


Spesso coincideva con il mio compleanno e sovente significava la fine dello svago estivo.


Vedi caro Luca, non sei tu l’unico “bucolico”.


Dove sono cresciuto io non ci sono colline, filari di prosecco o i sentieri avventurosi delle prealpi. Tuttavia c’erano (prima che lungimiranti amministratori incaricassero insigni urbanisti) campi di grano, alberi da frutto, le “case vecie” con i pollai e le stalle, fiumi e fossi e cave abbandonate dove si pescava, ad ogni ora, pesci che mi dicono non esistere nemmeno più.


L’inizio della scuola significava per me e per i miei coetanei la fine della libertà e del gioco estivo e l’inizio di un percorso lungo circa nove mesi. Si doveva stare alle regole, portare un grembiule nero col fiocco azzurro e soprattutto si imparavano delle cose che ci sarebbero state utili, e che hanno consentito a me, a tutti noi di costruire un progetto di vita.


La scuola che ho fatto io nel 1978 è lontana nel tempo.


Il nostro Paese ha cercato, nel dopoguerra, non sempre con grandi risultati, di investire nella cultura e nell’istruzione, come elemento fondante dello sviluppo economico e della coesione sociale, che in italiano significa, il sapere stare insieme e convivere pacificamente nonostante le differenze.


La scuola dal 1978 ad oggi è cambiata, ed è cambiata anche la società.


Io, ma forse anche tu, andavo a scuola dalle 8 alle 12 e 30, perché mia mamma faceva la casalinga e il suo “lavoro” unico era quello di seguire i figli (tèndarghe i putei).


Così mediamente accadeva in tutte le famiglie, perché con uno stipendio in casa anche di operaio o impiegato, non ci si permettevano lussi, ma si viveva bene.


Nella mia famiglia oggi lavoriamo in due, e avremmo voluto poter contare nel tempo pieno, sia perché sappiamo che nella scuola del mio comune ci sono bravi insegnanti, che possono far crescere bene nostro figlio, sia perché sarebbe stato utile alla nostra organizzazione familiare.


Questa è la situazione della maggior parte delle famiglie venete. Non da oggi, ma da qualche anno, poiché per arrivare a fine mese bisogna lavorare in due.


Tanto è vero che le amministrazioni locali, anche quelle governate dalla Lega, hanno speso camion rimorchio di denaro pubblico per costruire mense scolastiche, adeguare le scuole, renderle ambienti vivibili perché i nostri figli ci possano stare bene per un tempo lungo.


L’anno scorso il tuo Governo, quello di cui hai fatto parte come ministro, ha deciso di destrutturare la scuola italiana. Per “merito” vostro ci sono meno insegnanti e quelli che restano sono messi in condizioni di difficoltà a fare fronte alle richieste.


Avete deciso di ridurre i fondi (anche quelli regionali) dedicati alla messa in sicurezza nelle scuole. Avete ridotto del 25% la spesa per le pulizie. Avete tagliato il personale ATA, pardon i bidelli. Avete detto che un maestro unico e generico è meglio di un insegnate specializzato in aree tematiche e in materie specifiche.


Il 13 settembre mio figlio inizierà ad andare a scuola e andrà alla scuola statale, in quella classe a cui grazie a Te e ai tuoi amici è stato negato il tempo pieno.


Frequenterà una scuola in cui gli insegnanti, che sono servitori dello stato, si sentono traditi e abbandonati, trattati come mangiapane a tradimento.


Caro Presidente, che vuoi tanto bene ai Veneti! Tra le famiglie escluse dal tempo pieno nella scuola che frequenterà mio figlio, non ce n’è una che debba prendersela con qualche Mohammed o Abdullah, perché nella graduatoria nessuno di questi le ha sopravanzate.


Ma devono o meglio dovrebbero prendersela con un Governo che pensa che l’istruzione sia un costo inutile, e con un Governatore che non ha capito, o che finge di non capire, che l’istruzione, la scuola, la formazione, sono stati e possono ancora essere un elemento trainante del nostro modello di sviluppo, del miracolo economico Veneto.


In questi giorni, gli altri genitori, chiedono a mia moglie e a me, che cosa abbiamo deciso di fare.


Sono nostri amici, coetanei, cresciuti con noi e come noi nel nostro comune, molti dei quali Ti hanno votato. Ce lo chiedono sottintendendo che per noi la soluzione è a portata di mano, visto che potremmo pagarci una scuola privata (se non lo sai quella che costa meno viene 4000 euro l’anno).


Bene, caro Presidente, mio figlio andrà alla statale insieme ai bambini di quelle famiglie che sono in difficoltà, perché la scuola privata deve essere una scelta, non un percorso innescato dalla differenza di censo.






Caro Presidente,


Lasciami finire questo “pensierino” di inizio anno scolastico con l’auspicio che tu ti metta veramente e finalmente a lavorare su queste cose, che sono cose serie. Faresti un po’ meno propaganda ma potresti finalmente dire di avere fatto qualcosa di buono per i veneti.



Che la forza sia con voi!

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