INARRESTABILI?
La sua uscita è stata corretta dal segretario in pectore e da Massimo D’Alema per placare un segretario furibondo. Ma solo in parte: nel senso che Bersani vuole rivedere il meccanismo delle primarie. L’episodio rivela le tensioni nel Pd; e conferma che di fronte ad un congresso «vero», gli eredi di Prodi e Veltroni rischiano di litigare fino alla rottura. Soprattutto, riemerge l’ambiguità di votazioni «aperte» che funzionavano finché si trattava di consacrare il candidato del centrosinistra a palazzo Chigi. Diventano invece un’incognita quando si tratta di eleggere «solo» il segretario, perché il possibile premier dovrà soddisfare gli alleati.
Il risultato è uno scontro cattivo e insieme apparentemente oscuro; e segnato da una sfiducia reciproca profonda. Di colpo, quelle primarie presentate come la sublimazione della democrazia, vengono guardate come un rito che Franceschini potrebbe manipolare. «Dobbiamo garantire», spiega con candore Rosi Bindi, alleata di Bersani, «che le primarie si svolgano in modo corretto, senza vantaggi precostituiti ». Ad incanaglire la faida contribuiscono, stavolta contro Bersani, anche i risultati delle elezioni di domenica in Germania.
Il fronte interno contrario al candidato sostenuto da Massimo D’Alema sfrutta il disastro della Spd tedesca per bocciare la sua strategia di sinistra; e per rimettere in discussione l’adesione al gruppo socialista a Strasburgo. Il senso dell’offensiva è chiaro: stiamo per eleggere un segretario che ci porterà alla sconfitta perché persegue un’identità ed un progetto vecchi, già bocciati in tutta Europa. Si tratta di un tentativo in extremis di invertire l’affermazione di un Bersani che ha ottenuto circa i due terzi dei «sì» congressuali. Ed in prima linea si presentano personaggi diversi come Walter Veltroni e Francesco Rutelli.
Entrambi sostengono che il Pd si prepara a tornare «un partito socialista classico»; e che pagherà un prezzo politico alto. Contano di certo vecchi e nuovi rancori; ambizioni personali; e le tossine depositate nel gruppo dirigente dal fallimento del governo Prodi e dai risultati prima delle politiche del 2008 e delle europee del luglio scorso. Ma al fondo rimane la sensazione che esistano due Pd, difficilmente conciliabili; e che Bersani rischi di essere visto dai quasi sicuri perdenti del prossimo congresso come leader di «un» partito, quello degli iscritti, e non dell’intero Pd. Anche se bisognerebbe domandarsi perché questa ambiguità di fondo, sempre esistita, rischi di diventare lacerante solo adesso.
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